Attraverso il supporto di schizzi, rendering, bozze dello script, Elisa Caldana (Pordenone,1986) e Diego Tonus (Pordenone, 1984) ripercorrono il processo di realizzazione del loro ultimo film.
Elisa Caldana: Il progetto per il palazzo denominato “Topographie des Terrors” [Topografia del terrore] è stato concepito nel 1993 dall’architetto svizzero Peter Zumthor, come un centro di documentazione pensato per ospitare archivi legati alle atrocità del nazismo – non si sarebbe focalizzato, quindi, sulle vittime ma sui perpetratori del terrore. L’edificio sarebbe dovuto sorgere a Berlino nel sito dove le SS e la Gestapo avevano il loro quartier generale. La struttura era stata pensata come un involucro luminoso e trasparente, posizionato sopra le stanze sotterranee in cui i nazisti torturavano i prigionieri politici. Il progetto proponeva di lasciar parlare il suolo del sito storico, non aggiungendo alcun commento. Si dice che quest’idea non sia mai piaciuta ai committenti, che volevano invece un centro di ricerca più convenzionale. Evidentemente non sentivano quella stessa necessità dell’architetto di dar voce al luogo e volevano semplicemente rivestirlo. Riguardando il film realizzato in questi due anni a Londra, penso al processo di ricostruzione del palazzo, al lavoro di montaggio avvenuto di notte, agli incontri con i giornalisti della BBC e della Reuters nelle newsroom e nei bar della città.
Diego Tonus: Il progetto per il palazzo “Topographie des Terrors” di Zumthor è un’immagine di un futuro presente mai realizzatosi, in potenza, e abbiamo pensato di trasformarlo in una piattaforma concettuale. Un set per una storia che riflettesse sulle dinamiche del terrore contemporaneo e sugli effetti che le pratiche terroristiche hanno sull’immaginario collettivo. Abbiamo ricreato l’architettura attraverso l’uso della realtà virtuale e di immagini generate (CGI), come unico modo per dare forma a un’immagine mentale. Abbiamo deciso di non rendere visibili le stanze sotterranee dell’architettura preesistente, di non ricostruire il sito storico. Il palazzo è astratto dal contesto della città e trova le sue fondamenta nel vuoto dello spazio virtuale.
EC: L’astrarre l’edificio dalla sua progettata destinazione d’uso ci ha permesso di legarlo alla dimensione del terrore attuale, che non solo è corporeo, legato ai confini geografici; ma opera in quanto possibilità. Un terrore virtuale, situazionale, che cambia regole appena accade, che può verificarsi ovunque, in qualsiasi momento.
DT: Il nome del progetto già conteneva un aspetto paradossale se legato a un’analisi del terrore contemporaneo. L’idea di determinare una topografia degli eventi del terrore dell’oggi è praticamente impossibile. Il set è stato risignificato proprio da questa impossibilità, data la natura schizofrenica del terrorismo echeggiante nei non-luoghi di Internet e dei media. Un terrore che ci circonda e in cui i terroristi non si conoscono realmente ed entrano in contatto tramite network virtuali.
EC: Discutendo su come introdurre, nel silenzio del palazzo, una storia che riflettesse sulle dinamiche del terrore attuale, abbiamo iniziato a modellarne la struttura. L’edificio è un personaggio studiato nel dettaglio e siamo riusciti a dargli corpo solo dopo un anno di lavoro.
DT: La decisione sul come modellarlo è stata graduale. La struttura è stata ricreata virtualmente fino ai minimi dettagli, ma senza la presunzione di fornirne un’esperienza reale. Ricordo quando abbiamo trovato, ad Hannover, una delle rare pubblicazioni dedicate al progetto. Comparando i vari disegni, abbiamo notato che negli anni era cambiato. Esistevano due versioni del palazzo. A quel punto, l’idea di essere fedeli a un originale non aveva molto senso. Come proiezione di un’immagine mentale, la nostra sarebbe diventata una delle tante versioni del progetto. Discutendo con lo Studio Zumthor, è emerso che nel nostro film l’edificio è piuttosto vicino all’originale, salvo alcuni particolari della struttura e degli interni da noi immaginati.
EC: Pensando a come rendere l’atmosfera di un luogo mai esistito, abbiamo viaggiato in Europa, per osservare altre architetture di Zumthor. Sulla base delle note prese durante quei sopralluoghi, abbiamo ricreato virtualmente “Topographie des Terrors” stanza dopo stanza. La modellazione è iniziata dal secondo piano, dagli uffici; per poi scendere al primo piano contenente gli archivi. L’ultima parte modellata è stata il pian terreno, insieme allo scavo che avrebbe dovuto ospitare il sito storico e alla lunga sala in cui è ambientata la scena finale. Nel film, non ci si orienta all’interno dell’edificio, che non viene mai mostrato nella sua totalità.
DT: Durante la modellazione, consideravamo l’architettura come metafora psicoanalitica, un dispositivo attraverso cui discendere i vari stadi della storia che avrebbe dovuto coesistere con l’edificio e aprire la narrazione ad altre dimensioni. Abbiamo notato delle coincidenze tra gli spazi di “Topographie des Terrors” e una newsroom, per come l’abbiamo vista nella sede della BBC, ad esempio.
EC: Nel tentativo di delineare i diversi attori del terrore oggi, ci siamo imbattuti nelle linee guida della Reuters su come riportare eventi terroristici. La Reuters è stata una delle prime agenzie di stampa a rifiutare l’uso della parola “terrorista” all’interno delle sue news – perché quelli che per noi sono terroristi, per altri sono freedom fighters. Pensando alle dinamiche della mediazione del conflitto, abbiamo studiato il punto di vista di un produttore e mediatore dell’informazione. Volevamo dare attenzione al conflitto che si forma in un giornalista nella posizione di dover confermare la veridicità e l’accuratezza dell’informazione, per dare senso alle immagini scioccanti che perpetuano il terrore e comunicarlo secondo principi giornalistici.
DT: Abbiamo incontrato giornalisti della Reuters e della BBC e fatto loro interviste anonime, parlando di come la sovraesposizione a immagini violente influenzi la loro quotidianità, il loro sognare e immaginare un futuro. Questi incontri sono alla base dello script del film. Ci siamo anche confrontati con degli psicoanalisti, esperti in grado di dare un senso alle immagini mentali che possono derivare dalla sovraesposizione a immagini violente. L’incontro più significativo è avvenuto con due responsabili del Freud Museum di Londra, a cui abbiamo chiesto di interpretare un sogno da noi fabbricato, basato sulle reali testimonianze di giornalisti da noi raccolte. Abbiamo letto loro il sogno, ma senza rivelare che era stato inventato. La loro prima reazione è stata trovarlo molto schizofrenico, specialmente nell’uso del linguaggio. Non sapevano chi fosse il soggetto che raccontava in prima persona, ma nel parlare usava termini come could [potrebbe] o should [dovrebbe], mentre nei sogni autentici non esistono dubbi: una cosa è e basta. Parlando dell’impressione di realtà presente nei sogni, di sogni autentici e di sogni fabbricati, ci hanno aiutati a riscrivere il sogno che è rientrato nella seconda parte dello script.
EC: Guardando alle modalità di costruzione dell’informazione nel giornalismo contemporaneo, abbiamo articolato una riflessione sul ruolo e il valore delle immagini come strumenti per perpetuare il terrore e manipolare la percezione della realtà. Nel film, la voce di un giovane giornalista affetto da disturbi da stress post-traumatico secondario racconta l’incontro avvenuto con uno sconosciuto in un bus, mentre entrambi attraversano il Tunnel della Manica – lo spazio della Brexit – lasciando l’Inghilterra. In un flusso di pensiero, il giornalista mette in dubbio la natura del suo ruolo in sistemi di produzione dell’informazione come il news reporting e i codici etici che governano la newsroom. La rievocazione di immagini violente lo porta a riconoscere la natura sistematica del terrorismo e la violenza nascosta all’interno della definizione professionale dei ruoli. Parla degli effetti che l’enorme quantità di dati ha sulla propria vita; del peso di scegliere cosa raccontare, sapendo che gran parte delle storie non verranno raccontate. In tal senso, la verità è l’ideale che il personaggio tenta di raggiungere. Nel suo discorso, il giornalista prende coscienza del fatto che mentre tendiamo a dare attenzione ai singoli eventi, non vediamo i processi sottostanti, formati da eventi minori, non documentati, che non fanno notizia. Esprime un punto di vista disilluso, cosciente del fatto che non avrà mai la visione completa di quello che sta accadendo.
DT: Questa coscienza è rispecchiata dal vuoto del palazzo mai realizzato e dal vuoto dei suoi scaffali. La verità riveste il ruolo di un’immagine incompleta, formata anche da quello che non può essere ricostruito o ricordato. Quest’incompletezza è presente nella virtualità delle immagini violente rievocate insieme alle immagini dell’edificio immaginato.
EC: Progettavamo di lavorare con un attore che potesse dare voce a un personaggio dall’identità indefinita, a volte contraddittoria. Il nome di Khalid Abdalla – attore e attivista britannico di origine egiziana – ci è stato suggerito da Gareth Evans, curatore presso la Whitechapel Gallery.
DT: Abbiamo incontrato Khalid per la prima volta in un café nel Sud di Londra. Insieme a lui, abbiamo studiato la psicologia del personaggio e riscontrato delle coincidenze nella storia, che lo hanno portato ad accettare la collaborazione. La storia di Khalid risuona in vari aspetti con la biografia del personaggio, che lavora come giornalista in un’importante agenzia di stampa.
EC: Khalid è membro fondatore del Mosireen Collective, principale gruppo di giornalismo partecipativo che ha documentato gli eventi della rivoluzione egiziana in Piazza Tahrir, a Il Cairo. Lui stesso ha provato la cosiddetta “fatica da compassione” derivante dal lavorare con immagini violente, esaminando lunghe ore di girato, spesso di notte. Considera questa pratica come lotta mediatica, una lotta di immagini e attraverso le immagini. Si è sentito particolarmente vicino alla storia, nel momento in cui il personaggio rievoca le immagini scioccanti di un video che mostra cadaveri distesi su montagne di spazzatura. Khalid ci ha chiesto se quel video lo avessimo immaginato o visto, perché quelle immagini erano state le uniche pubblicate ed erano state girate da sua moglie, Cressida Trew, in Egitto. Questa e altre coincidenze sono aspetti che sono rientrati nel processo psicologico di creazione dell’atmosfera del film attraverso la voce.
DT: Come Khalid, il personaggio è nato in Inghilterra, ma ha origini straniere. Per la sua duplice identità, Khalid ha interpretato ruoli difficili, come quello del pilota dirottatore Ziad Jarrah in United ’93 (2006), un film di Paul Greengrass che ha ricostruito l’evento dell’11 settembre. Khalid ci ha raccontato di essere stato spesso trattenuto durante viaggi internazionali, e interrogato rispetto alla propria identità, alle proprie origini e sui motivi delle sue visite. Ha riconosciuto nella nostra scelta di ambientare la conversazione all’interno del Tunnel della Manica quella condizione di vulnerabilità in cui ci si ritrova nei luoghi di transito, come aeroporti e confini, in cui l’identità, le intenzioni e i motivi di un viaggio vengono messi in dubbio. Quando anche la propria storia personale viene messa in dubbio, ci si chiede chi abbia l’autorità di raccontare una storia. La domanda che ricorre nel film – “Il problema è come raccontare una storia e perché dovremmo raccontarla in un certo modo” – concerne sia la dimensione personale dell’individuo, che quella della collettività mediatica. Si rivolge anche a chi ha il potere di definire la storia ufficiale, come gli storici o i ricercatori in un centro di documentazione.
EC: Il montaggio del film è avvenuto in studio, proiettando le immagini dell’edificio in grande scala insieme alla voce. Le immagini proiettate del palazzo vuoto e inesistente sulle pareti di un edificio reale, ci hanno dato un’impressione fisica immediata. Abbiamo esteso la fase di montaggio al titolo del lavoro, contrapponendo al nome “Topography of Terror” una data specifica. Il 19 dicembre 2016 coincide con la data dell’assassinio di Andrey Karlov, avvenuto in una galleria d’arte di Ankara. È la notizia della morte dell’ambasciatore russo a dare inizio alla conversazione nel film. Questa decisione fa riferimento alla modalità in cui gli eventi vengono richiamati nei media e archiviati nei database. Una data segna un punto nel tempo, un frammento all’interno del flusso ininterrotto dell’informazione.