Quando ho visto per la prima volta le opere di Emanuele Marcuccio (Thiene, VI, 1987; vive a Losanna), ero interessato ad alcune figure legate alla storia della scultura inglese, in particolare a Philip King. Stavo cercando di costruire una visione, allo stesso tempo precisa ed estesa, su tutta quella generazione di artisti, considerando come l’accesso a risorse tecniche industriali come la fibra di vetro e la pittura su metallo offrisse un metodo per riconsiderare e ampliare lo spazio d’azione dell’arte astratta.
Ero convinto del fatto che quest’assurda separazione tra arte astratta e figurativa, al di fuori della storia del radicalismo così rigorosa e precisa, non avesse senso, e che non fosse abbastanza per comprendere l’effettiva posta in gioco. Per me queste due categorie erano una facile soluzione per consentire ai critici di tralasciare gli ovvi elementi narrativi che venivano insinuati in quelle ricerche con lo scopo di trovare altri spazi creativi liberi e interessanti.
Marcuccio, senza pudore e con distanza, ha dato una nuova chance a questa riflessione in una ricerca connessa alla conoscenza e alla manipolazione del mondo della tecnica. Certamente, con il passare del tempo, questo dialogo si è evoluto in forme diverse, ma la sensazione è che l’industria sia sempre lì per soddisfare i nostri desideri.
Le sue lastre d’acciaio forate sono personaggi. Possiedono vita propria. Sono cariche di ironia e consapevoli che l’opera d’arte deve sempre trovare una strada per sfuggire al rischio di rimanere solamente un oggetto.
Samuel Gross: Ci siamo incontrati per la prima volta a Ginevra, giusto?
Emanuele Marcuccio: Sì. Avevo appena finito di installare un mio lavoro insieme a Fabrice Gygi nella vetrina del suo studio, in centro, e tu ci sei passato davanti. Ero davvero felice quel giorno.
SG: Cosa porta un giovane artista italiano a studiare in Svizzera, e in particolare all’ECAL di Losanna?
EM: Uno dei motivi per cui mi sono interessato alla Svizzera è stato proprio sapere che Gygi, insieme a Stéphanie Moisdon, Valentin Carron, Fabian Marti e Sylvie Fleury, tra i tanti, insegnavano all’ECAL. La tradizione artistica svizzera è stata poi una piacevole sorpresa. Mi riferisco più nello specifico al movimento Neo-geo e alle sue conseguenze. Artisti come John Armleder e Francis Baudevin erano poco rilevanti per me prima di arrivare in Svizzera, mentre all’ECAL la loro pittura geometrica era ancora molto presente, soprattutto al triennio dove appunto sia Armleder e Baudevin insegnavano. Negli atelier del corso di arti visive e tra le esposizioni locali vedevo costantemente dipinti monocromi, shaped canvases e pattern geometrici. Sono certo di avere accolto queste influenze estetiche e di aver riscoperto questo genere di approccio all’opera.
SG: Vedi la tua pratica come un’estensione della lunga tradizione di astrattisti italiani vicini all’industria? Qual è dunque il tuo rapporto con la storia dell’arte?
EM: Credo ci sia un inevitabile legame alla tradizione italiana. Poco prima di rispondere alle tue domande ho riletto una storica intervista a Ad Reinhardt in cui rispondeva a una domanda simile dicendo che l’arte deriva solo dall’arte e ogni artista è in relazione con qualsiasi altro artista venuto prima e dopo di lui. Detto questo, credo ci sia poco di astratto in quello che faccio, se penso che le mie lastre potrebbero già esistere in qualche magazzino. Ho un approccio piuttosto negativo verso l’atto creativo, per questo motivo il mio coinvolgimento, per il momento, si limita alla costruzione di un disegno tecnico che successivamente viene tagliato al laser sull’acciaio. Mi interessa come questo semplice passaggio basti a sviluppare una forma che assomiglia a qualcosa riconosciuto e accettato come “arte”.
SG: Vedo le tue opere come un’ultima reincarnazione del sogno moderno, una prospettiva che ci fa credere di poter avere una relazione emotiva con la macchina. Cosa ne pensi?
EM: La provincia veneta dove sono cresciuto è animata dalle fabbriche e dai capannoni delle zone industriali. Ne ho subito il fascino e da sempre ho desiderato di giocare al piccolo industriale di successo. Sono interessato all’immaginario di questo settore, ma non alla meccanica delle macchine e al loro funzionamento.
Associare il significato di un’opera a quello a cui visualmente assomiglia è un atteggiamento sbagliato nel mio caso perché l’estetica industriale soddisfa solo alcune delle mie necessità e confonde le mie insicurezze attraverso il linguaggio standard, ben omologato del design. A volte mi piace usare le parole “turismo industriale” per descrivere il mio avvicinamento a questo tema.
Le mie lastre dall’aspetto efficiente e funzionale sono di supporto a delle riflessioni sulla produzione artistica stessa, la funzionalità, il valore delle cose e delle persone.
SG: Nel tuo lavoro c’è questa sensazione della lenta fine di una festa…
EM: Mi piace questa immagine! Mi vengono in mente le discoteche che si trovano sempre nelle zone industriali del Nord-Est, fuori prefabbricati industriali, dentro templi greci decorati con finte statue di gesso. Io e i miei amici ci andavamo a ballare la techno la domenica pomeriggio. Eravamo tutti ragazzi che appartenevano allo stesso modesto quartiere, la maggior parte figli di meridionali trasferitisi al nord per lavoro. Ci vestivamo da capo a piedi Dolce & Gabbana, Richmond e Daniele Alessandrini. Tutti avevamo uno scooter. Andare in discoteca era un rituale, customizzavamo i nostri scooter e il nostro aspetto per metterci in mostra davanti e dentro quegli spazi futuristici, scatoloni grigi-cemento abbastanza grandi da contenere il nostro desiderio di successo, soldi e piacere. Ecco, mi rallegra pensare che la festa che sta finendo a cui ti riferisci è una di quelle, una domenica pomeriggio qualsiasi.