Per agevolare la nostra lettura del lavoro di Emanuele Marcuccio, cominceremmo col sezionarlo in filiere produttive, evitando di concentrare la nostra attenzione sui sovrasensi delle diverse industrie implicate. Tra i suoi lavori ricordiamo: pentole ridipinte, cuscini imbottiti a forma di stella cadente, banchi da mercato pieghevoli e lastre di varie fogge e colori. Qui l’errore sarebbe di considerare questi lavori come Kirsty Bell definisce quelli di Cady Noland e Lutz Baker: oggetti emancipati dal loro uso. Nel caso di Marcuccio siamo di fronte a processi produttivi emancipati dalla loro funzione. L’artista non infonde nulla agli oggetti che non provenga da lui – non il senso di brutalità del reale che possiamo trovare distillato in una lastra di Park McArthur, ad esempio. Credo di ricordare che diversi anni fa su una lastra avesse addirittura spalmato della crema al cortisone. In questo senso l’uso del metallo è una grammatica semplificata, che permette di affrontare l’avvicendamento dei soggetti, dall’astrazione più radicale alla figurazione domestica, con la scioltezza di chi non si pone questioni formaliste. La tecnica è data: montanti, rivetti, lastre; la verniciatura a volte dipende dal primo colore disponibile, le piccole quantità non sono proprie dell’industria del metallo e a volte bisogna insinuarsi in un flusso avviato, dove non si ha arbitrio su tutto.
Nella sua penultima mostra intitolata “Sì o No” a Milano, Marcuccio ha deciso di affiancare ad alcune sculture di metallo dei pannelli riflettori in polistirolo da set fotografico, da un lato bianchi dall’altro neri, accostati perpendicolarmente lungo uno dei muri della galleria, suggerendo in modo piuttosto esplicito l’immagine di una fila di cabine elettorali. Nascosti tra i pannelli, due d’apres Albers (entrambi Joseph Albers, 2020) in metallo. In fondo alla stanza, in piena vista, la riproduzione di un tabellone da basket sempre in metallo, appeso a un’altezza intermedia tra il regolamentare sportivo e quello espositivo. La natura geometrica di questi soggetti, il tabellone, come il classico motivo concentrico di Albers, sembra enfatizzare l’origine vettoriale di questo gruppo di lavori (filiera produttiva). La tecnica – sagomare, verniciare, rivettare –, che potrebbe sembrare normalmente macchinosa, appare la più adatta per realizzare forme del genere, senza avvertire la forzatura di una trasposizione, mostrando l’armonia della costruzione di qualcosa con una tecnica consona.
Nella sua ultima mostra da Damien & the Love Guru a Bruxelles, Marcuccio porta questa dinamica a un livello ulteriore, non utilizza solo materiali propri di ambiti diversi della sua vita, ma si recluta come proprio doppia, trasformandosi in direttore creativo (pratica a lui non sconosciuta) di un servizio fotografico. La serie di fotografie, Portrait of a young man in Brussels (2021), scattata da Mark Asekhame, ritrae un giovane occupato a far niente, all’interno di una camera-loculo realizzata in un teatro di posa. Casting, costumi e direzione artistica, come dicevamo, dello stesso Marcuccio. Il soggetto, un giovane in senso lato, di età indefinibile, si rigira nella stanza come un cane nella cuccia, cambia posizione, mai per fare qualcosa, tenta un sonno, forse, si rigira. Le immagini sono esposte in galleria con lo stesso spirito con cui si avvicendano le immagini negli aeroporti, in bilico tra un’industria, quella pubblicitaria, e uno slancio, quello politico – un’impietosa pubblicità di se stessi? Oltre a questa serie fotografica sono presenti due sculture di metallo che ricordano chiaramente per forma e colore due televisori al plasma spenti. Il televisore spento è il paradigma del passaggio di stato da età inattiva a età attiva, dallo studio, vero o presunto, al lavoro. L’elettrodomestico si carica di tristezza nell’immagine di un televisore spento davanti a una persona sveglia, ma inattiva. Nella sequenza di foto il televisore appare due volte, in entrambe le foto il giovane lo fissa, una volta la televisione è chiaramente accesa, in un’altra sembra che stia fissando, con la stessa intensità ebete, un apparecchio spento. La televisione è, in tal senso, più di qualsiasi altro apparecchio, una discriminante del senso di colpa rispetto allo spreco di tempo.
L’anacronismo dello spreco rispetto all’ansia del lavoro è un tema caro a Marcuccio, sottilmente sollevato nella morbidezza di due sculture cuscino, Cometa Blu, (2020), a forma di stella cadente, di dimensioni generose, simili per certi aspetti a quei cuscini oblunghi ai quali persone particolarmente sole amano avvinghiarsi nel sonno. Queste stelle soffici hanno però colorazioni sinistre (nero lucido, argento), diventando oggetti inquietanti, capaci di minare il conforto che suggeriscono. La forma non mantiene un portamento eretto, la scarsa imbottitura contenuta li porta ad adagiarsi rispetto al loro sostegno abbandonandosi a forme accidentali. Le punte, lo strascico, tutto collassa, nonostante il peso del suo interno.
In questo sparuto gruppo di lavori sono concentrati molti dei temi sollevati dalla sua ricerca, formalizzata con un grado di sintesi particolarmente felice. Sono questi oggetti, come altri della produzione di Marcuccio, veicoli di un passaggio di stato generazionale. Si concedono ancora languori giovanili, sogni di macchine, di meccano, di ore spensierate, di assenza di preoccupazioni, di salute adolescenziale, di corpi resistenti e pronti a rimettersi in forma dagli eccessi di anni passati.
Oggi la spensieratezza è anacronistica, anche per i più giovani. Questo è il tempo del lavoro in quanto tale, e l’apparenza industriale di molti suoi lavori sembra ambire a questo riconoscimento: prodotto industriale è prodotto del lavoro. La qualità costruttiva è un documento, un certificato di provenienza, certificato di lavoro compiuto.
Sarebbe un errore cogliere la freddezza dei materiali come un manifesto di un certo radicalismo, o un tentativo di formalismo minimale. Questi oggetti sono più umani che industriali, contengono la necessità umana del lavoro, e questa è una costante della pratica di Marcuccio in cui possiamo cogliere un’esaltazione del diritto al lavoro, della necessità umana di occupazione, ma anche il culto della deontologia, agognata e spesso mancante; il culto del lavoro preciso, pulito, corretto, nella vita come nell’arte. Tutto questo è particolarmente visibile in alcuni lavori, penso alle forature arbitrarie delle lastre, che ci hanno sempre fatto pensare alla figura del bigliettaio obliteratore dei tram di un tempo, ma anche alle sculture che Marcuccio ha realizzato anni fa con i sostegni dei banchi degli ambulanti.
Questa esaltazione del lavoro si accompagna a una forte disillusione nei confronti dell’organizzazione umana del lavoro, quanto meno occidentale, più su un piano generazionale che censorio –– per quanto questi due piani ultimamente possano sovrapporsi. Un’altra evidente qualità delle sue opere, è la chiarezza con cui si manifestano, non cercano un effetto magnificante, non esaltano auree sedicenti, ma si palesano nella loro corporalità, carichi di senso, ben celato, e privi di appigli. Potremmo parlare di onestà intellettuale, e, per l’appunto, di deontologia professionale –– in un campo che la deontologia professionale, per costituzione, la schifa profondamente. L’onestà intellettuale di cui parliamo non ha a che fare con i contenuti, ma con la coincidenza di processo e contenuto, praticamente impossibili da dividere. Non siamo davanti a un’arte processuale, la tecnica qui – o produzione industriale in questo caso – è solo la naturale concretizzazione delle istanze intime di Marcuccio. Una rara qualità quella di rendere entropico un lavoro quasi soffocandone la natura emotiva, celandola in una produzione apparentemente così ermetica. Al punto che se fosse di poco più nascosta, la natura di questi lavori non riuscirebbe più a uscire, così profondamente celata nella freddezza dei materiali. Ma è questo senso del limite ultimo dell’autocensura la forza di questi lavori.
Non si fatica a trovare, all’interno della sua intera pratica, una certa morale positivista, che conserveremo come si conserva il consiglio di un anziano sconosciuto, la ricorderemo quando saremo vinti dall’indolenza: il lavoro nobilita l’uomo.