A 23 anni, Felipe Aguila vince una borsa di studio all’Accademia Albertina di Belle Arti e un po’ per caso arriva a Torino, dove l’essere straniero gli sembra un’occasione di cambiamento, un’opportunità esistenziale, un privilegio da mantenere il più a lungo possibile.
Alessandra Galletta: Giovanissimo artista a Santiago del Cile, sinceramente, che cosa sapevi, allora, dell’Italia?
Felipe Aguila: A dire il vero molto poco. Conoscevo il cinema di Antonioni e Visconti… conoscevo l’arte del vostro Rinascimento e i racconti di una ragazza italiana che viveva in Cile, tutto qui. Non sapevo nemmeno che cosa fosse la Fiat finché non sono arrivato a Torino!
AG: Che effetto ti ha fatto Torino i primi tempi?
FA: Sono arrivato a novembre, e c’era un cielo molto grigio e rispetto a Santiago la città mi sembrava davvero piccola… però proprio per questo l’ho trovata un posto perfetto per lavorare. Un po’ perché non avevo alcun tipo di distrazione, un po’ perché grazie alla borsa di studio potevo permettermi il lusso di camminare, pensare, studiare e prendere appunti visivi per mettere in cantiere dei nuovi lavori.
AG: Giravi sempre con la telecamera?
FA: Sì, ho conosciuto la città in modo molto solitario, filmando tutto quello che attirava la mia attenzione. Che puntualmente erano le cose che non attiravano l’attenzione di nessuno, come le gonne leggere appese in una vetrina, che si spostano ogni volta che qualcuno entra nel negozio e muove l’aria. Così è nato Gonne, il video del 2001. Fermarsi semplicemente su un dettaglio poco significativo, e cercare di trarne un po’ di poesia: è stato questo il mio primo video italiano.
AG: Facevi già videoarte in Cile, stare in Italia come ha condizionato la tua produzione, le tue aree di interesse?
FA: Diciamo che con il sacchetto di plastica che rotola al vento di Sam Mendes in American Beauty, quel tipo di poetica semplice del quotidiano si andava un po’ esaurendo come linguaggio, così in quegli anni mi sono allontanato sempre più dalla casualità, cercando di forzare la visione, la finzione, l’invenzione, forse anche l’inganno per chi guarda. Manipolare sempre di più le immagini, e con la complicità dell’audio accompagnare lo spettatore in posti strani, per vivere sensazioni astratte, poco definite, fuori dal conosciuto, dall’ovvio… e così, piano piano, con il video, ho cominciato ad attingere ai ricordi, con suoni e immagini il più possibile evocativi. Cominciavo a mettere radici qui in Italia, nonostante io mi senta sempre straniero.
AG: Lo dici con un certo orgoglio…
FA: Essere straniero è una condizione che mi piace molto, è quasi un privilegio per me, perché guardi tutto con la curiosità della prima volta, ma anche con distacco. Dopo ben dodici anni in Italia cerco di mantenere questa capacità di osservare le cose da un altro punto di vista perché la condizione, forzata, di essere sempre un po’ respinto mi piace tanto dato che ti fa vivere con tanto stress ma anche con attenzione: sei sempre all’erta e sempre attento anche alle realtà sociali e politiche… io non faccio un’arte politica ma il mio atteggiamento quotidiano è anche politico.
AG: Raccontami del tuo video Filum, del 2007.
FA: Stando lontano dal mio paese ho dovuto rivedere la mia identità, perché a un certo punto parli e ragioni con un’altra lingua, e non puoi essere lo stesso se ti esprimi con nuove formule linguistiche. Anche quando torno in Cile mi sento straniero, perché ho un altro accento, che tradisce un’altra mentalità, altre esperienze di vita. Da questo stato emotivo è nato Filum, un video a due canali che mette in parallelo mio padre e me, come due parole con la stessa radice linguistica, ma che esprimono significati diversi, piccole modificazioni che rovesciano il senso, perché anch’io sono come una parola slegata dalla sua radice. Nel video siamo io a Torino e mio padre a Santiago e facciamo gli stessi gesti quotidiani come camminare o farsi la barba. A un certo punto, in entrambi gli schermi, appare una specie di terra di mezzo, mio padre nel deserto di Atacama e io qui nel Parco del Gran Paradiso. Io cammino nel ghiaccio e mio padre nella sabbia ed è lì, in questo grande nulla, che avviene il momento del distacco.
AG: Che cosa ti ha dato l’Italia, che non avresti trovato in altri paesi?
FA: Pirandello è stato una grande scoperta, per l’attualità dei suoi temi e questa abilità nel forzare il non sense che non è semplicemente raccontare l’assurdo della vita, come in Beckett, ma il subirlo come individui, essere granelli di sabbia al vento senza un vero senso, senza una scelta vera, senza alcuna decisone per la propria vita.
AG: Forse senza Pirandello non sarebbe nato Città Impossibile, il tuo grande progetto video iniziato qualche anno fa ma ancora in progress, che ti vede protagonista di un’avventura surreale.
FA: Città Impossibile nasce dal bisogno di evadere, ricreare un mondo diverso onirico e personale. È nato in un momento di stacco tra la mia vecchia ricerca artistica, ormai esaurita, e un ciclo nuovo che faticava ad arrivare. Così ho pensato di girare in pellicola bianco e nero la storia di un corridore che mentre percorre un ponte al Parco del Valentino si trova in una città che è fatta di tante città diverse (anche Santiago del Cile, ovviamente). Il protagonista scopre una città impossibile ma fatta su misura per lui, da guardare con occhi nuovi e nuovi significati, ma poi dovrà formalizzare la sua posizione in questa città che non riconosce e non lo riconosce.
AG: Che cosa ti manca del Cile?
FA: Mi manca l’Oceano Pacifico: è molto difficile vivere lontani da questo mare così vivo, tempestoso, unico… molto diverso dal Mediterraneo!