Mi chiedo come sia, che senso abbia vedere i quadri di una esposizione, adesso. Siamo diventati occhi che guardano altri occhi. Gli occhi degli altri talvolta non li capisco, più spesso rivelano una bellezza fragile, sembrano chiedere aiuto. Quando vediamo un’opera d’arte, la vediamo con gli occhi? La vista non è forse sopravvalutata? Adesso che siamo solo occhi, cosa succede? Una comunità di occhi che guardano opere e si guardano negli occhi.
A primo impatto la magia di Flaminia Veronesi ci parla di un mondo fantastico, creature ermafrodite e sessuali senza vergogna. Sono creature di un mondo originale, di un tempo in cui il fallo era presente ma non ingombrante, e la vulva lo accoglieva, eventualmente. Flaminia ci parla infatti di una “nuova pre- preistoria”. Ricominciamo da capo, dimentichiamoci di tutto quello che non serve. Il maschile che agisce, ed il femminile che contiene, fusi.
Flaminia è una sirena adornata di costruzioni marittime tra i capelli. Parliamo di gioco, fantasia, sessualità e unione. Per lei l’arte è sempre stata un gioco, che prende vita attraverso lo sguardo degli altri. Un rischio condiviso, che sia in una mostra o in una forma d’arte più ‘pubblica’. Un rischio che diventa emozione folgorante nel condividere la responsabilità dell’Assurdo.
Nell’apocalisse quotidiana, fantasia e gioco agiscono nella costruzione della realtà, che è in sé apocalittica perché è finita ed ha un contorno. Così, la fantasia agisce su un foglio bianco per esistere tracciando un cerchio (quello è il mondo) percepito attraverso i sensi che agiscono come filtri rielaborando il patrimonio genetico e culturale. L’equazione di Flaminia è semplice: attraverso gioco e fantasia ogni individuo dovrebbe esprimersi integrando in questo cerchio, attraverso l’espressione, il Trascendente. Ai limiti del cerchio del mondo, sul cosiddetto orizzonte, troviamo sirene ed artisti che ci trasportano in varie dimensioni, dove il visitatore coesiste senza paura, agendo come traghettatori tra mondi paralleli.
Chiedo a Flaminia che ruolo ha la sessualità. Lei mi dice che essa diventa espressione della propria felicità, superando la vergogna verso se stessi e gli altri. Nasce in realtà da un atto d’amor proprio e di accettazione di sé, esplorando la morte e la vita. Una volta compreso che la nostra bellezza sta nell’effimero, accettando il ‘cagare, mangiare e morire’, ovvero ciò di cui siamo fisicamente fatti, attraverso fantasia e sessualità il divino è finalmente raggiungibile e a portata di mano.
Nelle creature di Flaminia, che viaggiano da piccolissime e fragili, a molto ingombranti, sino a pennellate estatiche, percepiamo una identità collettiva che poi si separa. In un mondo post apocalittico, se le gerarchie e le discriminazioni nascono dalla separazione e dal principio di non contraddizione, la comunità si crea invece dalla contraddizione.
Come ci insegna la matematica quantistica, quando verrà creato un continuum tra tutto e sarà spiegato a tutti, il patriarcato crollerà e tutto andrà meglio.
Una nuova equazione si crea: senza di te io non esisto.
Così l’arte cura come pratica alchemica. Non risolve il tuo problema curando te, ma ti cura curando il resto. Un’arte che ha un impatto sul presente come sguardo rivolto indietro e come espressione di un immaginario collettivo. Amputati del divino, ritorniamo all’identità collettiva e alla comunità, e attraverso una visione quantistica di collegamento, la piramide costruita collasserà, e diventerà spirale.
E lì assisteremo alla più importante apocalisse: quella del patriarcato e dei costrutti. E là, da qualche parte forse ci siamo noi, più vivi che mai, con un’identità che grida: io sono qui, e sempre ci resterò. Ma non sono una, sono tante, tanti, infinit*.