“Poter essere così all’istante stesso in cui si desidera essere, esattamente come l’impulso del momento detta, il prendere coscienza di questo istante realizzato, l’osservare se stessi nell’attimo in cui simultaneamente l’impulso affiora e si trasforma (si realizza) in azione”, questo un estratto della poesia Essere che Franca Sacchi pubblica su Flash Art nel 1974. A quel tempo aveva già una sua particolare modalità di improvvisazione musicale e aveva iniziato a trasferire le sue nuove concezioni musicali al mondo della coreutica, della danza e dello yoga, creando la danza “enstatica”, un movimento che parte dall’interno e che ascolta le proprie ragioni interiori prima di darsi al mondo. Sacchi è sperimentatrice degli studi più importanti della prima rivoluzione elettronica e protagonista di diversi momenti dell’arte contemporanea italiana negli anni ‘70. Fonda a Milano nel 1968 il Centro di Ricerche Musica Elettronica assieme al fotografo, designer e poeta Davide Mosconi. Alla fine degli anni Sessanta collabora con diversi artisti fra cui Ugo La Pietra, Giuseppe Chiari, Michelangelo Pistoletto, Paolo Scheggi, con il quale firma nel 1968 Dies Irae, Inquisizione secondo Paolo Scheggi e Franca Sacchi.
Charlemagne Palestine, compositore e interprete, crea musica rituale e continua per sorgenti sonore elettroniche, carillon di campane, organi a canne, pianoforti, voce e altri strumenti a tastiera dagli anni ‘60. Ha iniziato a sviluppare sonorità con oscillatori sonori elettronici e filtri, sviluppati da Moog, Buchla, Serge, Arp e Oberheim, collaborato e registrato con artisti e musicisti quali Pan Sonic, Simone Forti, Tony Conrad, Rhys Chatham, Perlonex, GOL, tra gli altri. Le sue sonorità, della durata di diverse ore fino a giorni interi, esplorano lente e graduali trasformazioni timbriche di colore e variazioni di tono di ritmo, generando le “Golden Sonorities” o quello che lui stesso definirà Golden Sound. La sua ricerca continua per pianoforti amplificati, armonie, dissonanze e cluster con una forza fisica viscerale che spinge i limiti sonori di un pianoforte a uno strumento multi spettro elettro-acustico che emette suoni. Palestine ha smesso di esibirsi dai primi anni Ottanta fino alla metà degli anni Novanta dedicandosi interamente alle sculture e installazioni multimediali che si configurano come “altari” di animali di peluche.
Questa conversazione nasce da una fonte: una fotografia che ritrae Franca Sacchi e Charlemagne Palestine alla Galleria di Franco Toselli a Milano nel 1992, durante la mostra “Charlemagne Palestine. Matrimonio di Luisa e Carlo Orsacchiotti”, scattata da Giorgio Colombo. Questa fotografia ha funzionato come segnalibro (e come un punctum), ci ha fatto riprendere il filo di una storia che ha segnato indiscutibilmente parte delle produzioni artistiche dagli anni Sessanta ad oggi. I due artisti si sono rincontrati su Zoom dopo ventinove anni, da quella sera alla Galleria Toselli, e il dialogo che segue è un affondo nella musica e nei ricordi che li accomunano.
Charlemagne Palestine: Ciao Franca, sono passati tanti anni.
Franca Sacchi: Davvero molti Charlemagne. Sono felice di vederti dopo tutto questo tempo.
CP: Iniziamo parlando della tua mostra “Enstasi” al Museo MACRO a Roma, come sta andando? È una registrazione in loop di tutti tuoi progetti in una stanza buia, dove si può ascoltare e meditare. Queste produzioni risalgono alla fine degli anni Sessanta?
FS: La mostra è stata organizzata molto bene, devo dire. Quattro ore e mezza della mia musica, partendo dai pezzi elettronici dei primi tempi. È esatto, sono della fine degli anni Sessanta, tra il 1968 e il 1969. Poi si passa a cose più recenti, con i sintetizzatori. Qualche anno dopo ho smesso di fare musica elettronica. Quando puoi fare tutto, quando ogni cosa è possibile nella tua mente, il desiderio di fare qualcosa svanisce. Piuttosto che fare tutto ciò che è possibile fare, ma che non si vuole fare, è meglio porsi dei limiti.
CP: Da qualche parte ho letto che ti piace usare la parola “noia”, perché ci spinge a fare qualcosa.
FS: Sì, per non cadere nella ripetitività. Ho ricominciato a suonare il pianoforte. Canto anche. Un giorno qualcuno mi ha chiesto di cantare in un coro di gregoriano femminile presso la Chiesa San Marco a Milano. Ebbene, da lì è nata in me una passione per il canto gregoriano, le nostre origini musicali. Mi sono iscritta al Pontificio Istituto Ambrosiano di Musica Sacra ed ho conseguito il magistero in canto gregoriano (cinque anni e trentatré esami!). Ora, quando faccio un concerto di canto, inizio con un melisma di una Halleluja e proseguo improvvisando con il mio metodo. Ho studiato anche canto lirico, per conoscere tutte le tecniche vocali e sviluppare le potenzialità della mia voce.
CP: Questo, per certi versi, si avvicina alla mia esperienza. Ho iniziato a cantare da bambino quando frequentavo la sinagoga. A metà degli anni Sessanta, a New York, mi sono lasciato travolgere dalla musica elettronica. Successivamente è arrivato il pianoforte. In realtà all’inizio non ne andavo matto, poi però ho conosciuto un pianoforte magnifico, il Bösendorfer, che ha una sonorità incredibile.
FS: Io uso il Bösendorfer durante i miei concerti.
CP: Ho sperimentato molto anch’io, mescolando l’elettronica con gli strumenti e la voce. Negli anni Ottanta mi sono preso una pausa di tredici anni. Sembrava che la scena musicale stesse andando in una direzione completamente opposta e io ho sempre avuto bisogno di una spinta dall’esterno che mi stimolasse, con cui confrontarmi. È stato un periodo difficile. All’inizio degli anni Ottanta ho iniziato a lavorare ai miei animali-giocattolo sacri, e sono tornato alla musica solo nel 1994. Da quel momento è andata meglio. A volte le cose vanno in direzioni diverse da quelle che ci aspettiamo. Sei soddisfatta dell’installazione?
FS: Sì, sono molto contenta e mi piacerebbe in futuro realizzare una mostra/concerto/danza in cui io possa presentare al mondo tutte le mie arti insieme: musica, danza, pittura. Sì, ora c’è anche la pittura.
CP: Ho visto alcuni tuoi disegni recentemente…
FS: Io lavoro sull’essenza, sulla quintessenza. Non mi interessa il figurativo, anche se mi hanno definita “essenzialità figurativa”. Mi piace trovare l’essenza delle cose.
CP: Sono curioso di visitare la tua mostra, dovrei andare anche a Prato per la mostra di Simone Forti, con cui ho lavorato per cinquant’anni. Abbiamo lavorato a un progetto intitolato Illuminations (1971) basato sul suono, sul corpo, sui movimenti, sull’interazione.
FS: A proposito dei vecchi tempi… Ti ricordi Matteo Licitra? Mi ha chiesto di salutarti.
CP: Sì, uno dei figli di Lisa Ponti. Mi sono appena ricordato che c’è una foto di Lisa Ponti tra le mie opere nella mia mostra da Franco Toselli nel 1992. Credo sia stata scattata il giorno del suo compleanno, avevano disposto un tavolo lunghissimo per il suo settantesimo. L’ultima volta che ti ho vista credo fosse proprio in occasione di quella mia mostra da Toselli, nel ‘92. Come reagiscono le persone che visitano la tua mostra a Roma?
FS: Tante persone passano, entrano ma ovviamente non si fermano ad ascoltare per quattro ore e mezza. Rimangono per un po’, poi escono, poi rientrano. E così via. Ho comunque l’impressione che piaccia molto.
CP: Se fossimo negli anni Sessanta, la gente sarebbe venuta e sarebbe rimasta per quattro ore… Erano tempi “hippie”. Tutti quanti assumevamo droghe o quant’altro. Mi ricordo di aver passato così ore e ore, a volte intere notti. Il mondo sembrava muoversi molto più lentamente. Le persone della nostra età avevano tempo, c’era frenesia ma non come oggi. Oggi la gente corre di continuo.
FS: Io no, non mi sono mai drogata, mi bastavano le sigarette normali.Sempre di corsa, sempre di fretta. La gente non riesce più a concentrarsi su niente.
CP: Qual è il tuo primo ricordo legato alla musica elettronica? Come sei approdata a un genere così strano? Voglio dire, ai tempi, noi che facevamo elettronica eravamo tipi piuttosto strani.
FS: All’inizio ero molto curiosa. Frequentavo il conservatorio, studiavo pianoforte. Ho iniziato a suonarlo quando avevo tre o quattro anni. Ma il conservatorio non mi ha insegnato niente di nuovo.
CP: Anche per me quella del conservatorio non è stata un’esperienza meravigliosa.
FS: Cercavo un nuovo modo di fare musica, allora si cercava di dare “dignità di musica” a qualsiasi suono. Cominciai a frequentare lo studio di Fonologia della Rai con Marino Zuccheri, dove venivano Luigi Nono e tanti altri. I generatori di frequenze elettroniche producevano onde sinusoidali, onde dente di sega.
CP: Certo, le “sine waves”! Sono prodotte dai generatori di funzioni che ai tempi erano delle macchine enormi.
FS: All’inizio mi sembrava una cosa semplice, non era particolarmente interessante. Ma poi mi resi conto di quello che potevo creare mettendo insieme dieci tracce e mixandole. Ne ero affascinata perché era come creare un nuovo genere di musica con tracce completamente diverse. E poi, come mio solito, ho deciso di approfondire la mia conoscenza in questo campo, sono andata all’ORTF – Office de Radiodiffusion Télévision Française a Parigi, poi a Bruxelles con Leo Kupper, lo conosci?
CP: Sì, lo conosco. Ci siamo visti lo scorso anno. Ha fatto un’intera serie composta da pezzi elettronici, che ha poi trasformato col suo nuovo strumento sacro, il santur.
FS: Conosco molto bene il santur, perché Leo mi ha ospitato diverse volte a casa sua e abbiamo lavorato spesso insieme. Ora ho perso i contatti, vivo una vita molto solitaria.
CP: Un po’ come un eremita. Eppure sei molto espansiva, lo sono anche i tuoi lunghi capelli ricciolini.
FS: Quando ci siamo visti, quella volta da Toselli, avevo i capelli lunghi, poi ho dovuto tagliarli. E sono ancora più ricci.
CP: Leo è una persona molto dolce. Quando l’ho visto lo scorso anno, ho avuto la sensazione che fosse in una sorta di suo Rinascimento. Sorrideva ed era molto brillante, nonostante i suoi ottantacinque anni. E suona ancora il santur, questo strumento sacro iraniano a corde. È diventato un maestro in questo e ora lo usa per fare musica elettronica. Lo maneggia come se fosse uno strumento elettronico.
FS: Come dicevo prima, quando puoi fare qualsiasi cosa, quando tutto è possibile, la creatività non è più stimolata, per quanto mi riguarda. Ciò che mi stimola è il dover lottare contro dei limiti. Le emozioni, per esempio. Se stai cantando e provi una fortissima emozione, questa può rovinare la tua voce. Quindi, e questo vale anche per il pianoforte, preferisco avere delle difficoltà da superare o delle situazioni particolari. Questo è il motivo per cui sono tornata al pianoforte e al canto.
CP: Hai un pianoforte a casa?
FS: Si, ho un pianoforte Blüthner.
CP: È uno strumento bellissimo dal suono molto dolce. Lo suoni ancora?
FS: Certamente! È il pianoforte che mio padre mi ha regalato quando avevo diciotto anni. Mi chiese “Vuoi una macchina o un pianoforte?” Scelsi il pianoforte.
CP: Questo fa di te una persona singolare.
FS: Ma l’anno dopo mi regalò una macchina.
CP: Guidavi molto ai tempi?
FS: Sì, ho guidato molto, ma ora non guido più. Preferisco avere un autista.
CP: Come sei arrivata allo yoga? Yoga e musica sono, in qualche modo, connesse nella tua attività?
FA: Insegno yoga da cinquantatré anni. Ma in realtà non mi piace mescolare le cose. Lo yoga mi ha aiutato con la concentrazione, a scavare dentro me stessa sempre più in profondità, ad avere controllo sullo strumento che è il mio corpo, oltre alla voce. Ma non uso nessuna tecnica di yoga in particolare.
CP: Quindi sono due cose distinte, non come per La Monte Young e Terry Riley. Loro spesso univano il loro stile e le diverse discipline.
FS: No, non mi piace giustificare la mia pratica artistica, o dare un obiettivo al mio fare arte; forse dare un contributo alla storia dell’arte, mi piacerebbe.
CP: Hai appena detto che stai lavorando su te stessa, sul tuo corpo in quanto strumento. Sei tu lo strumento definitivo?
FS: Sì, diciamo che la mia è una ricerca di autenticità, che credo anche sia molto legata al periodo che stiamo vivendo. Bisogna partire dal presupposto che una cosa che in questo momento è autentica, tra cinque anni, o magari fra cinque minuti, non lo sarà più. È per questo che ho scelto l’improvvisazione.
CP: È interessante che tu descriva la tua pratica come “improvvisazione”. Io odio questa parola. Preferisco parlare di momenti. Questo è uno di quelli, un nuovo momento. Improvvisazione è un termine usato per molte cose, ma l’idea di essere nel momento, per me, lo sostituisce di gran lunga.
FS: Sì, è una parola che da molto fastidio ai musicisti. So che a loro non piace l’improvvisazione. Pensano che sia troppo facile. Non so, è molto interessante questo punto. È per questo che, ai tempi, non ho osato passare all’improvvisazione. Però poi ho elaborato un metodo che mi era congeniale e che ora anche insegno. Era perfetto per il mio fare arte. La mia arte è una sorta di autobiografia.
CP: È vero, come anche la mia. La mia arte è molto più autobiografica di quella di tanti miei colleghi, perché porto sempre con me i miei amuleti e i miei vestiti. Mi piace indossare un certo tipo di abiti, i miei cappelli, i miei piccoli Whiskey. Perciò comprendo quello che dici.
FS: Forse potremmo fare qualcosa insieme, un duetto.
CP: Certamente. Io e mia moglie abbiamo una casa sul Lago d’Orta, c’è uno spazio bellissimo che è appena stato ristrutturato. È una sorta di piccolo tempio proprio in riva al lago, ha un’acustica incredibile e non l’ho ancora sfruttato. Continuo a pensare a come possa essere utilizzato. È difficile arrivarci con un furgone e movimentare oggetti. Ma se ci andassimo potremmo provare a fare un duetto, come due sacerdoti.
FS: Sarebbe magnifico. Conosco il Lago d’Orta.
CP: Potremmo organizzare una sessione pomeridiana e documentarla. Sarebbe divertente, non ho mai fatto nulla del genere in quello spazio meraviglioso. Quali sono i tuoi progetti dopo la mostra a Roma?
FS: La mia idea ora è di organizzare uno spettacolo di danza. Ovviamente suonerei anche il pianoforte, ma sarà dedicato principalmente alla danza. La storia la conosci bene, le Mille e una notte. Il titolo sarà Mille e una danza.
CP: È ancora un work in progress? O sai già quando e dove andrà in scena? Nella nostra casa sul Lago d’Orta ci sono anche delle incisioni su legno, è l’atmosfera perfetta.
FS: Ci sto ancora lavorando. Al momento ho tutti i danzatori che mi servono, si passerà dalle danze orientali a quella classica, ma ci sarà anche della danza pop e un po’ di Rock n’Roll. Il filo conduttore è il testo.
CP: Un mix di generi. Quanti sono i ballerini?
FS: Cinque. È il mio numero.
CP: Il mio è il nove, è il mio numero preferito.
FS: Fantastico. E l’ultimo pezzo sarà una danza enstatica, come la mia arte.
CP: Già, ho provato a cercare la parola “enstatica”, in inglese non esiste.
FS: Enstatica è un termine coniato da Mircea Eliade ed è il contrario di estatica1, è qualcosa che parte da dentro, il che può sembrare contraddittorio nel caso di un danzatore. Ci muoviamo e anche quando stiamo fermi ci muoviamo dentro noi stessi. È molto difficile stare all’interno di sé stessi quando si danza, perché è una pratica fortemente proiettata verso l’esterno. Ma se un danzatore riesce a rimanere dentro sé stesso, allora darà vita a una forma di danza che non ha eguali.
CP: Quindi non è una forma di danza introversa, ma semplicemente interiore. Giusto?
FS: Sì. Quello che voglio dire è che bisogna seguire gli impulsi interiori che nascono dall’intelligenza, dalle emozioni, dal corpo stesso – che possono cambiare molto rapidamente. Oppure può essere che non cambi per un po’ di tempo, ma comunque può sempre cambiare. Si può essere eccitati e felici, ma basta un solo pensiero triste e l’umore cambia immediatamente. Non è facile. Anzi, è molto difficile, ma allo stesso tempo autentico. Per me, la bellezza nasce dall’autenticità – se questa è la parola che si usa anche in inglese.
CP: Sì, è autenticità. Abbiamo lo stesso termine.
FS: Bisogna sapere essere nel momento, come lo chiami tu. Spero che il prossimo momento possa essere di persona.