Giancarlo Politi: Vedo che stai lavorando su un libro con Allen Ginsberg. Com’è nata questa idea?
Francesco Clemente: L’occasione di incontro è stata una collezione di ritratti che sto facendo ad acquerello e la coincidenza che ha creato l’entusiasmo per fare il libro è stata il comune amore per William Blake che, come sai, ha sempre disegnato e scritto nella stessa pagina.
GP: Come nasce un lavoro a due nel tuo caso?
FC: Mi ha sempre interessato vedere quanto lontano si può portare il proprio lavoro da se stessi, dal proprio gusto. L’estensione di quella idea è lavorare anche con qualcun altro.
GP: Hai già avuto esperienze, mi pare, di lavoro a due.
FC: Sì, diverse collezioni di miei lavori sono state realizzate a due mani, anche con pittori “dilettanti”. Dove questo è più evidente è in un lavoro di miniature che ho realizzato in India quattro anni fa. Le miniature sono state fatte col metodo tradizionale, che consiste nel passare il foglio di mano in mano a ognuno degli illustratori, ragazzi di tredici o quattordici anni che conoscono una o due calligrafie, uno o due motivi, e su quello c’è una regia che decide quali motivi mettere e dove.
GP: Ci sono quadri che reputi non finiti? A distanza di tempo, intendo.
FC: In un certo senso tutti i quadri non sono finiti perché il loro senso varia con l’apparire di nuovi quadri. Desidero che il tempo dell’opera non sia mai visibile fino a quando l’intera opera non sarà chiusa.
GP: Come ti senti a lavorare qui a New York? Non posso dire che i tuoi quadri siano cambiati perché sei sempre stato uno sperimentatore di te stesso. Credi che da Napoli a qui le opere siano cambiate comunque?
FC: Insisto nel dire che Napoli è una periferia di New York e in questo senso non sono diverso dalle altre presenze a Manhattan di questa generazione, tutte persone che vengono dalla periferia. Chi conosce Napoli mi dà ragione.
GP: Ma New York, forse anche Napoli non so, è una città che impone un certo tipo di pressione psicologica.
FC: È così e anche il contrario. È una pressione fisica, non psicologica, di cui, in quanto meridionale, ho bisogno per lavorare. In realtà New York è una città molto leggera. Non dimenticare che prima di New York scappavo sempre in un altro posto sovraffollato, l’India, dove si ripete questo stesso meccanismo di leggerezza dovuta al sovraffollamento. C’è un tale sovrapporsi di diversità che in realtà si è molto liberi, si è molto soli, nel senso migliore del termine.
Helena Kontova: Tra l’India e New York c’è una grande differenza, mi riferisco a quando dicevi di dover essere forzato a lavorare.
FC: In realtà c’è molto in comune, perché entrambi i luoghi basano molta della loro forza su un impianto coreografico ben inventato. Inoltre sono due buone macchine per l’educazione: insegnano a essere pronti, ben allenati, a semplificare molto di te stesso perché devi essere appunto leggero, veloce, scattante.
GP: Quindi non ti manca niente dell’Europa?
FC: A me piace vivere nella strada. Vedo l’Europa come una piccola comunità di giusti in un deserto. La strada dell’Europa mi fa malinconia.
HK: A Londra ho visto “Le quattordici stazioni” alla Whitechapel e da Anthony d’Offay. Lavori spesso su dei cicli?
FC: Sì, ho sempre lavorato in queste che chiamo collezioni più che cicli, sempre sull’idea di ricominciare da capo, attraversare una tecnica e un processo; diciamo di creare una cornice, di lavorare all’interno di questa cornice, esaurirne le possibilità e andare oltre. Ho sempre desiderato che queste collezioni si perdessero nel mondo e che di ognuna si vedesse solo un frammento. Mi ha sempre interessato, da una parte, l’idea di collezione e, dall’altra, l’idea di frammento, l’idea che il lavoro rimandi a un altro lavoro che non si vede, però c’è o ci sarà. Il caso de “Le quattordici stazioni” alla Whitechapel, che mi ha impegnato un anno, il mio primo anno a New York, è un caso eccezionale in cui, invece, l’intera collezione di lavori è stata tenuta insieme, perché c’è stato un committente che ha reso possibile tenere il lavoro unito.
GP: Senti, tu riesci a lavorare contemporaneamente su più quadri?
FC: La pittura a olio ha tempi molto lunghi, tutti i pittori che dipingono a olio lavorano su più quadri. Quando lavoro con altri media è diverso perché con l’affresco, l’acquerello o il pastello ho un tempo molto veloce.
GP: Il quadro piccolo è diverso dal quadro grande?
FC: No, mi pare che una delle singolarità del mio lavoro sia l’assenza di scala. Tutte le cose che ho fatto sono piccolissime o enormi, e sono talvolta piccolissime o enormi senza che davvero si entri mai in quel problema della scala. Il che è una fortuna perché mi permette di dialogare con il lavoro europeo e con quello americano, che hanno due scale differenti.
HK: Quando inizi un quadro cominci dalle figure e poi fai il fondo?
FC: Questa è un’altra singolarità e forse un successo del mio lavoro, il fatto cioè che non c’è contraddizione tra figura e fondo. Questo è il punto su cui tutta l’arte europea si è arenata. Lo diceva Bacon l’anno scorso in una bellissima intervista: “Non ho mai saputo cosa mettere dietro le mie figure”. L’arte americana ha sempre dipinto figure e oggetti su un materiale. Il fondo per il pittore americano è il materiale: il retino serigrafico di Warhol, il velluto e i cocci di Schnabel, la scultura che è dietro la pittura che è dietro l’immagine di Jasper Johns.
GP: Sei stato un artista concettuale. Credi si possa leggere il tuo lavoro correttamente senza sapere che sei stato un artista concettuale?
FC: Sono stato un artista concettuale nel ’70 come sono stato neo-espressionista nell’80, lascio decidere a te se queste semplificazioni sono dovute all’originalità del lavoro o alla mancanza di originalità…
GP: Qui nel tuo studio vedo un ritratto di Andy Warhol e un quadro di Picabia.
FC: E un Füssli.
GP: Sono scelte sintomatiche o casuali?
FC: Il quadro di Füssli credo abbia molto a che fare con tutto l’aspetto del mio lavoro legato al cattivo gusto, se vuoi. Füssli e Blake sono i primi pittori occidentali che hanno incontrato la verità come cattivo gusto. Di Warhol amo la generosità del lavoro, come amo la generosità e la velocità di Tintoretto. Picabia è qui come potrebbe esserci un quadro di De Chirico degli anni Cinquanta, sono due pittori che hanno preteso di essere dei dilettanti per mantenere un’integrità nella loro ricerca e hanno dimostrato che erotismo e umorismo non sono ostaggi di un’epoca, mentre le idee lo sono.
GP: Che differenza trovi tra la pittura che si fa negli Stati Uniti e quella che si fa in Europa?
FC: Credo che Savinio abbia scritto dell’Europa e della borghesia europea prima della prima guerra mondiale e del fatto che noi non potremo mai immaginare che cosa l’Europa sia stata prima della guerra. E mi pare che quegli ottimi anni dal ’13 al ’18 abbiano molto a che fare con la scomparsa di un costume o di una classe in Europa che ha lasciato dei superstiti: i pittori, che hanno dovuto creare un mondo alternativo a quello che non c’era più. In Europa in questi anni mi pare sia accaduta la stessa cosa: c’è stata una guerra dalla quale sono affiorati i pittori. E la loro singolarità mi pare essere che, per la prima volta, ognuno di loro, da Enzo Cucchi ad Anselm Kiefer, sia riuscito a radicarsi nel proprio luogo nel momento in cui tutte le differenze etniche sono state cancellate. L’abbiamo visto in Italia, dove è venuto fuori Enzo, che è un pittore delle Marche, eterna periferia di un mondo che è diventato tutto periferia. In America c’è una tradizione vivente di pittura contemporanea. Noi veniamo da questa grande guerra, da questo grande silenzio e appiattimento.
HK: Dopo i primi lavori con la fotografia, più concettuali, hai cominciato a esporre disegni: come è avvenuto questo cambiamento?
GP: Da dove è venuto il “coraggio” di esporli?
FC: Dalla solitudine. Nel ’77 ho passato un anno in India: c’era questo silenzio, questa solitudine, questa terribile mancanza di realtà e questo desiderio di restituire realtà a quello che si faceva come artisti, mentre tutto il bagaglio di esoterismo e sofismi degli artisti della fine degli anni Sessanta sembrava usurpato dai politici, dalla strada; sembrava non ci fosse niente da fare in quella direzione.
HK: Ti servi di modelli, di persone, oggetti?
FC: Di solito per chiudere i quadri piuttosto che per cominciarli. Quando ci sono delle figure le dipingo prima senza un modello; poi, quando il quadro è nella fase finale, adopero figure o modelli. Questo, di nuovo, ha a che fare con un lavoro a quattro mani, perché in qualche modo la modella fa dare la linea, in modo sorprendente; molte volte sa esattamente di quale linea ho bisogno e me la indica.
HK: Ma perché usare la realtà solo come un correttivo e non come punto di partenza?
FC: Mi interessa costruire il quadro come se fosse il diagramma di un campo di forze, di energie, come quei diagrammi dei giornali enigmistici in cui ci sono i puntini da unire. E dopo, dalla severità dell’ideogramma passano a uno stato più teatrale. Ho sempre visto i miei quadri come degli ideogrammi in costume, vestiti, travestiti. Dell’ideogramma hanno la capacità di rimandare a, sono un campo di relazioni che rimanda a un altro campo di relazioni del mondo senza però alludere esattamente all’altro campo. In quello stadio non ho bisogno della realtà, ma di pensare; dopo ho bisogno della realtà per fare a meno del grottesco. Ho bisogno della realtà come luogo comune, di riportare indietro sempre il quadro a un’apparenza di luogo comune.
GP: Penso che gli artisti capiscano meglio il lavoro di altri artisti. E i critici? Hanno capito il tuo lavoro?
FC: Come napoletano ho una fondamentale diffidenza per il “pensiero”, per quelli che “pensano”. Napoli è avvelenata di Oriente, e in Oriente l’immagine della creazione è un albero primordiale su cui un uccello mangia e un altro sta a guardare, a digiuno. È l’idea che il pensiero è tarato da questa fame fondamentale, per cui non c’è conoscenza che non sia corrotta. Mi fido di tutti quelli che hanno pensato anche col corpo: Ezra Pound, René Daumal, Walter Benjamin, Simone Weil.
GP: Che differenza trovi tra la critica europea e quella americana?
FC: New York è un caso particolare perché per l’arte c’è un pubblico che ha lo stesso carattere del pubblico del cinema, del teatro o dello spettacolo in generale. Questo pubblico è il grande critico di New York, non si può comprare, e le cose gli piacciono o no. Qualcuno, su un giornale di New York, ha scritto del mio lavoro: “Non sappiamo che diavolo faccia, però è esattamente quello di cui abbiamo bisogno adesso”. Qui è più facile per i critici avere un senso maggiore del loro ruolo perché hanno meno spazio per degli arbitrii, mentre in Europa, dove per la strada c’è il coprifuoco e l’arte non è vista da nessuno, mi pare sia più difficile per i critici mantenere un senso del loro lavoro, mi sembra che perdano veramente il senso dell’arte e che vivano in questo sogno tecnocratico in cui l’arte è uno strumento per governare non si sa bene chi.
HK: Vedo qui nel tuo studio una scultura di Julian Schnabel. Non hai mai fatto scultura?
FC: No, ma mi sarebbe piaciuto aver fatto quella di Julian se pesasse meno.
GP: Ti affascina 1’idea di farla un giorno?
FC: Sì. Sono sempre a caccia di una nuova avventura. E sono sempre fortunato con le prime opere, quindi è probabile che incontri prima o poi anche la scultura.
HK: Prima di cominciare a dipingere sfogli libri per cercare agganci, ispirazioni?
FC: Molti quadri vengono fuori da cose che ascolto o leggo. Da coincidenze, dal fatto che nel giro di una settimana leggo e ascolto la stessa frase in venti situazioni diverse o apro quattro libri e dicono la stessa cosa.
GP: Non ci sono sollecitazioni, per esempio, di ordine letterario?
FC: Credo che quello che Ezra Pound ha fatto in poesia abbia moltissimo a che fare con quello che faccio nei miei quadri.
GP: Quali sono gli artisti del passato che ti affascinano di più, che senti di più?
FC: Sono stato nei musei quando avevo sette, otto, nove, dieci anni, e non sono più tornato; non ricordo i nomi e non credo al passato, vedo dei frammenti, e credo in questi frammenti. Credo in queste oasi di integrità, in questo deserto di ripetizioni e fallimenti. Mi piace la Roma antica, la Roma del III secolo, la Roma del IV secolo, la Roma di Adriano, del Pantheon. Mi piacciono pochissime cose veramente. Sono come feticci che mi danno energia: il piccolo autoritratto di Paul Klee, qualche libro di Blake, l’umore di Salvator Rosa, la velocità di Tintoretto, i lavori del vecchio Picasso… tutta l’antichità tarda, quelle faccine dipinte su legno dei romani in Egitto, le mummie dei romani al Metropolitan.
GP: E tra i tuoi colleghi?
FC: Credo che Cy Twombly sia uno straordinario artista che amo.
GP: Dicevi che ti piacciono Schnabel e Cucchi.
FC: Di Julian ammiro la capacità di essere il primo. Tanto più che la mia ambizione è di essere il secondo.
GP: Tu ti sei “inventato” pittore o hai avuto anche un apprendistato? Sei un autodidatta?
FC: Sono un autodidatta, non ho fatto scuole. Fino a otto anni ero un enfant prodige poeta, poi sono diventato un pittore.
GP: Imparavi a dipingere da solo, dunque.
FC: Si fa da mille anni. Mettere d’accordo due persone su come piantare un albero è impossibile. La stessa cosa per come tirare una linea.
HK: Il periodo che hai trascorso a Roma è stato formativo o non ti ha dato nulla?
FC: Credo che Roma, e l’Italia in genere, sia una straordinaria scuola d’arte, e che porti anche fortuna se pensi che tutti, anche gli artisti americani, hanno fatto i primi lavori lì; da Rauschenberg a Schnabel hanno sempre trovato qualcuno che lì li sosteneva, quando qui non erano neanche conosciuti. Boetti mi ha aiutato agli inizi. Un grande amico, mi ha aiutato anche a esporre i miei primi quadri.
GP: Senti, come riconosci una buona pittura, non tua ma di altri?
FC: Henry Geldzahler mi ha suggerito due tecniche. Una è ricordare: se ti ricordi, se continui a ricordare l’immagine. L’altra è guardare di nuovo e trovare più di quello che hai trovato la prima volta. La tecnica che uso di più è quella di guardare di nuovo perché di solito non guardo per niente! (ride). La tecnica del ricordare non va tanto bene perché se ricordo un quadro e poi torno a riguardarlo scopro di essermelo completamente inventato. Non bisogna comunque mai credere al giudizio dei pittori sui propri contemporanei perché è un giudizio sempre e necessariamente cinico, nel senso che se si sta facendo qualcosa c’è una severità dovuta al fatto che non si ha bisogno di tanto rumore ma di poche cose.
GP: Il napoletanismo, la frase gergale o le immagini che hanno accompagnato la tua infanzia resistono qui a New York?
FC: Qui vivo molto la città, esco di notte, ma leggo anche i poeti quindi mi rimane sempre un collegamento col parlato, anche se è un istinto che, come dici, mi viene da Napoli, dove il parlato è tutto, il tempo è tutto.
GP: Chi frequenti a New York?
FC: Fra gli artisti, Julian Schnabel, Brice Marden, Alex Katz sono i pittori che vedo con più frequenza.
GP: Parli di arte con loro?
FC: Con Julian guardiamo proprio ai quadri e soprattutto agli errori. Come sai, l’amministrazione degli errori è quello che fa bello un quadro e distingue un pittore dall’altro.
GP: Sei un pittore con un’immaginazione e una cultura molto ricche. Un lavoro basato su un’estrema sensibilità e metodicità come quello di Brice Marden è un lavoro attuale?
FC: Certamente. Un lavoro ha diversi tempi. Tempi immediati e tempi più lunghi, delle attese. Una delle grandi qualità dei buoni pittori è saper anche attendere. Quello che un pittore cerca negli altri pittori è una chiarezza di metodo, e dall’altra parte il rinnovarsi di una sorpresa al di là di questa terribile costrizione. Qualcuno come Cy Twombly realizza questo sempre. Chiarezza e integrità: questo rapporto felice col lavoro affascina. Brice ce l’ha, Twombly ce l’ha, Katz ce l’ha, Julian ce l’ha.
HK: Che cos’è lo stile per te?
FC: Un anti-surrealista come René Daumal diceva che lo stile è il peso di quello che si è su quello che si fa. Mi piace immaginare che lo stile sia il peso, proprio il peso che ancora tutti i diversi frammenti che uno è a qualcosa che non si è, ma nondimeno c’è ed è fermo.
GP: Qual è la tua reazione di fronte a questa atmosfera newyorkese di continua esplosione, per esempio il graffitismo o la possibile istituzionalizzazione che si vede nell’East Village?
FC: Plutarco parla della nascita della danza a Sparta e di questi guerrieri incorreggibili a cui qualcuno insegnò a danzare che non andavano a combattere e restavano a danzare. Siamo sempre alle origini, daccapo e daccapo.
GP: Ma ti imbarazza o ti infastidisce trovarti di fronte a un quadro, non so, di Keith Haring?
FC: C’è un’analogia tra questa caratterizzazione etnica dei pittori in Europa e la caratterizzazione etnica di questi pittori a New York. È lo stesso fenomeno di comunità fortemente definite etnicamente che sentono la pressione all’appiattimento e al silenzio ed esprimono la loro identità. L’unica differenza è nel passato. E non credo che Lorenzo Lotto sia meno psichedelico dei tatuaggi centro-africani.