Nel 1973 il pittore romano Toti Scialoja (1914-1998) espone alla Marlborough Gallery di New York una serie di dipinti che segnano l’inizio di una nuova stagione creativa. Aggirandosi tra le sale della mostra il visitatore rimaneva colpito dalla monumentalità di un trittico di dimensioni inusuali per Scialoja: si trattava, così l’artista aveva confidato a Marisa Volpi Orlandini1, di un omaggio puntuale e fantasioso alle Battaglie di Paolo Uccello.
Incorniciato da Racconto d’inverno e Pelle d’asino n.1 spiccava Quindici con rossi (1972), realizzato appena pochi mesi prima. Sulla tela dilatata in larghezza si snodavano a intervalli irregolari una serie di segmenti vestiti di una palette – rosso carminio, verde petrolio e un bagliore bianco a segnare lo strategico punctum – che rendeva omaggio ai colori irreali di Uccello ricordati da Vasari. Strisce, quadrati, rettangoli (rettangoli-lance, suggerisce il pensiero figurativo) di diverse lunghezze e dimensioni emergevano da un notturno goyesco, alludendo nient’altro che a se stessi.
I critici rimasero perplessi. Come interpretare la serie di dipinti che Scialoja avrebbe poi definito “quantità cromatiche”? Semplice passatismo, o ci si trovava davanti a un’imprevedibile svolta minimalista? L’estrema consapevolezza dell’artista e le qualità formali dell’opera (grandi dimensioni, sì: ma le impercettibili sbavature che lasciavano intravedere il gesto del pittore portavano a un risultato tutt’altro che algido) negavano l’una e l’altra ipotesi. Scialoja avrebbe poi parlato così di Quindici con rossi, che considerava tra i risultati più riusciti di un ciclo su cui avrebbe lavorato dall’inizio fin quasi allo scorcio degli anni Settanta:
In questo quadro il ritmo si è spogliato di ogni apparenza e pretesto, è diventato pura scansione di quantità rettangolari che si ripetono alternandosi e variando dimensione e timbro cromatico. Non si tratta, malgrado le apparenze, di una pittura geometrica. I rettangoli assumono la loro forma ricavandola dal grande rettangolo contenitore della tela. Il tempo si è concettualizzato, nella sua volontà di purezza e di assoluto.2
Soffermiamoci sull’affermazione “non è una pittura geometrica”, solo apparentemente contraddittoria; come interpretarla? Una risposta possibile forse si può trovare facendo prender parte Scialoja a quella che Arshile Gorky chiamava “la grande danza degli stili”3, in cui artisti di generazioni diverse si tengono per mano uniti in uno sforzo comune, offrendo ciascuno un proprio contributo peculiare e individuale all’evento collettivo. Quindici con rossi potrà allora leggersi come prima tappa di una genealogia pittorica per cui la geometria è allo stesso tempo mentale e sentimentale4; la ricostruiremo accostando il dipinto di Scialoja a due lavori: uno di Marco Tirelli (Roma, 1956), l’altro di Erik Saglia (Torino, 1989). Scialoja, Tirelli e Saglia sono pittori per cui l’elemento geometrico non è un fine, piuttosto una contrainte necessaria a conquistare libertà inimmaginabili: scandire lo spazio per rivelare il ritmo del tempo, aprire una finestra che permetta al dipinto di permeare l’ambiente esterno, materializzare la tensione tra ordine e caos.
Per capire a quali principi risponda il particolare tipo di astrattismo (monumentale eppure accogliente, la cui geometria nasconde impercettibili spie di un modus operandi intensamente gestuale) di Quindici con rossi è necessario fare i conti con ciò che lo precede, ovvero rifarsi al percorso che porta Scialoja a questa serie, tra le sue meno note. Le quantità cromatiche vengono illuminate se le guardiamo assieme a quadri come Anche niente (1961), parte della serie delle Impronte, risultato cui il pittore arriva dopo un momento di crisi che lo vede incerto su come dar senso alla libertà del gesto appresa da Pollock e Gorky:
Nel ’57 avevo un grande quadro a studio, per terra, allora mi dissi: perché comincio a dare colpi di pennello da sinistra verso destra e non da destra verso sinistra? Questa scelta, pensai, è arbitraria, a questo pensiero ero come paralizzato, sono stato quindici giorni girando intorno a questa tela che non sapevo come affrontare. Disperato, cominciai a gettare del colore su delle pagine di giornale; forse l’ispirazione, forse un colpo di vento, presi questo giornale, lo rovesciai su questa tela, cominciai a battere facendo uno stampaggio di questo colore. Così avevo capito come potevo fare: spalmavo il colore sulla carta e poi la carta la rovesciavo sulla tela; in questo modo non c’era più scelta, ero scelto io stesso dalla carta.5
Lo stampaggio porta a una “libertà occasionale”6 che media gesto e necessità di ordine, e che proprio in virtù della sua apparente ripetitività dà spazio alla sperimentazione sui materiali; con gran gioia dell’amico Burri, sulle tele iniziano a far capolino ritagli di giornale, tempera mischiata a vinavil, sabbie e pigmenti. La necessità di coniugare gesto e ripetizione deriva dall’amore per Kierkegaard e Merleau-Ponty, tra le letture predilette di Scialoja: “la ripetizione”, fa eco il luminoso Giornale di pittura, “è il momento più alto, più morale: insistere su se stessi, ripetere se stessi, ma ripetere un se stesso perfezionato”7.
Da metà anni Sessanta, alla spazialità definita delle carte stampate si sovrappone un secondo livello visivo, quello creato dalle trame di corde e merletti, applicati direttamente sulla superficie della tela o – come in Ripetizione viennese (1965) e Corda bianca (1963) – pressati e poi rimossi, lasciandone intravedere le tracce: “Anche la superficie o campo deve partecipare al ritmo, deve temporalizzarsi esprimendosi in pause, intervalli cesure divisioni, lunghi righi verticali. I lunghi righi verticali erano a loro volta impronte di corde tese sulla superficie”8. Le “quantità cromatiche” sono diretta conseguenza di queste riflessioni. Come l’arbitrarietà del gesto andrà temperata dalla necessità di scandire la superficie, la dimensione geometrica è funzionale all’idea del segno-colore che rivela il ritmo del tempo. Quindici con rossi andrà letto come testimonianza contemporanea di una “idea mentale” della pittura tipica di certa arte italiana del Quattrocento e di Morandi, ma anche come omaggio a Mondrian, su cui Scialoja scrive un passo definitivo:
Mondrian ha dato alla pittura la presenza e forza attiva dell’architettura non a motivo dell’elemento geometrico-architettonico dello schema (il disegno di una pianta architettonica), ma per la ragione che la tela dipinta diviene superficie, muro, e in definitiva “oggetto fisico”. Oggetto non trovato ma costituito secondo una legge assoluta di ritmo. Secondo una essenza e una elementarità. Questa fisica suggestione e intrusione nella vita dell’uomo, questo diretto partecipare, questo spazio da vivere rappresentato dalla pittura di Mondrian raggiunge un pathos estremo e una palpitazione emozionale struggente, quasi sanguigna.9
Senza titolo (1996) di Marco Tirelli, che di Scialoja è stato allievo all’Accademia di Roma e interlocutore privilegiato per quasi quarant’anni, sembra materializzare queste riflessioni sulla superficie pittorica come oggetto fisico e sull’intimo rapporto tra pittura ed architettura. Notevoli le dimensioni; delicata, tipicamente centroitalica la cromìa. In un gioco di dispersione e concretezza troviamo venticinque pannelli rettangolari tenuti insieme da una griglia-cornice che li racchiude dando origine a un dipinto-monstrum (nel senso etimologico del termine: prodigio, apparizione) che dà un senso ulteriore ai tasselli esaltandone e insieme elidendone la finitezza. Non ci troviamo su una superficie piana, come nel primo caso; Tirelli non elimina lo spessore della cornice aggettante, anzi: l’opera è giocata proprio sulla tensione e scarto tra superficie pittorica e concretezza dell’oggetto. Avvicinarsi a questo dipinto-caleidoscopio significa vedere simultaneamente tanti frammenti d’infinito; è un affacciarsi sul buio conferendogli fisicità e compattezza, come in un episodio raccontato dall’artista:
A volte mi capita di affacciarmi alla finestra della mia casa sulle montagne umbre, a Spoleto. Vivo in un contesto totalmente isolato, e nelle notti senza luna si entra a contatto col buio totale. Tutto è nero, senza soluzione di continuità, la realtà tridimensionale viene temporaneamente coperta dalla notte, come nel Quadrato nero di Malevič. Con una torcia a volte provo ad illuminare qualche oggetto, che si manifesta emergendo dal magma che lo contiene; è curioso pensare di essere a contatto con una realtà tridimensionale che sappiamo esistere e vedersi di fronte una forma pura, un immenso quadrato nero.10
Senza titolo sonda il mistero che separa il visibile dall’invisibile, lo spazio reale dalla realtà autonoma della pittura. La prospettiva non viene letta come semplice processo ottico, ma come possibilità di accedere a un mondo trascendendone la bidimensionalità: “La pittura ha un potere magico: permette di vedere attraverso le cose, è il perspicere, il ‘vedere attraverso’ di Dürer. Un affresco consente all’occhio di attraversare la solidità di un muro di mattoni che gli sta dietro”11. Ci troviamo davanti a una pittura più aperta e mentale rispetto a quella di Scialoja (il che forse deriva a Tirelli dall’altro incontro decisivo per la sua formazione, quello con Alighiero Boetti). Mentre il poeta-pittore rifletteva sul ritmo della superficie, Tirelli invita l’osservatore a un doppio movimento: immergersi nella realtà aperta dal quadro (come in Malevič), ma anche guardarsi attorno, fare attenzione ai fili invisibili che legano il dipinto allo spazio in cui è esposto. L’arte di Tirelli crea un continuo richiamo, eco, gioco di specchi con l’architettura; nelle sue “grandi macchine ottiche forse sostanzialmente concepite per imparare a vedere”12 riluce la pittura da vivere auspicata dal maestro in accademia.
Un’analoga necessità di trovare un equilibrio tra geometria, gesto e relazione con l’ambiente circostante anima il lavoro di Erik Saglia. L’artista ha elaborato negli anni una tecnica che gli ha permesso di modulare una voce solo sua, il che lo rende libero da ogni ansia dell’influenza.13 Tutto ha avuto inizio per caso, mentre Saglia lavorava a dei collage durante gli studi all’Accademia Albertina: Invece di incollare la carta con della colla, ho utilizzato dello scotch di carta. Lì mi resi conto per la prima volta della proprietà filtrante dello scotch, i bordi dei ritagli dove c’era lo scotch di carta mantenevano le informazioni dell’immagine sottostante, ma venivano come saturate dallo scotch.14
Dall’incontro fortuito con le peculiarità di un materiale è scaturito un modo di procedere ben preciso, quasi un tributo alla struttura urbanistica della sua città natale: ricoperti i pannelli di pittura spray molto leggera, al camouflage del primo strato viene poi sovrapposta una griglia di scotch su cui viene successivamente applicata una resina epossidica dal carattere molto riflettente (per diminuire il colore e far sì che la colla dello scotch, che rimane sotto lo strato di resina, non sciolga) che conferisce ai dipinti una natura opalescente difficilmente riproducibile in fotografia.
In Senza titolo (2016) vediamo in azione questo complesso sovrapporsi di strati materici: il beige-verde della trama sottostante risulta molto impoverito e passa quasi in secondo piano, disciplinato e insieme vivificato dalla presenza delle griglie, disposte in due grandi rettangoli a loro volta ripartiti in una scacchiera. È una geometria “maniacale e manuale”15, quasi atletica: l’applicazione di due strati di scotch orizzontali e verticali elimina di fatto ogni possibilità di variazione in corso d’opera, creando per paradosso una tensione e una estrema necessità di precisione nell’esecuzione. La sovrapposizione del reticolato geometrico a un pattern di natura organica dà origine a uno spazio pittorico che risulta allo stesso tempo poetico e concreto, e sembra alludere alla natura pulviscolare della materia, alla sua stessa essenza e mutevolezza.
Anche in Saglia dunque la libertà espressiva nasce dalla contrainte e risponde di un inesausto processo di stratificazione e ricerca formale. Ai lavori rettangolari con colori volutamente silenziati si sono aggiunti dei tondi di grandi dimensioni, aperti a una cromia più intensa e a un contrappunto visivo, alla scansione geometrica predominante che non fa che aumentare la potenza evocativa di frammenti la cui natura resta rigorosamente non-narrativa. L’intensità di questo nuovo timbro deriva forse dall’aver fatto entrare in relazione la pittura con lo spazio, sfida cui Saglia non si è sottratto in Ceiling 1 (presentato presso Tile Project Space, Milano, 2016), rifacendosi alla natura tipicamente architettonica dell’arte italiana; segno di come la geometria (senti)mentale sia tuttora parte del DNA di una pittura esigente, di cui oggi sentiamo sempre più il bisogno.