Guido Molinari: La definizione dei tuoi interventi ha luogo grazie a un percorso concettuale che attinge alla realtà. Come si articola?
Giorgio Guidi: Il mio intervento è basato sullo studio di relazioni che possono instaurarsi tra persone, luoghi e oggetti. Si tratta dell’analisi di connessioni all’interno di piccoli “ecosistemi” nei quali mi insinuo. Nell’opera Tamburo ho utilizzato una struttura di pannelli non laminati che solitamente vengono impiegati nelle cucine economiche, su cui ho collocato diversi oggetti, come fossero piccoli scheletri di un arredamento casalingo trasformati in carovana. Sono resti fisici di rapporti e scambi avvenuti tra me e alcune persone che abitano all’interno di due casermoni di periferia a Brescia, la città in cui vivo. In un futuro prossimo questi edifici verranno demoliti in funzione di un’opera di riqualificazione del quartiere. Questa mia introduzione forzata in un sistema estraneo, e la conseguente analisi delle aspettative di chi lo vive in prima persona, mi ha ricordato un episodio di terrore collettivo avvenuto alla fine del Settecento: la cattura di un grosso lupo che aveva impaurito gran parte della popolazione nei territori circostanti la città di Milano. Come vedi, cerco di dare rilievo a particolari, a volte lievi dettagli marginali che poi reinterpreto. Inizialmente occorre uno sguardo privo di pregiudizi, il più oggettivo e preciso possibile, dopodiché mi interessa superare ciò che sembra essere un semplice dato reale e funzionale. Nel processo preferisco esaltare la proiezione emotiva, che spesso sorregge la realtà in un’impalcatura di riferimenti psicologici. Tutto ciò senza alcuna intenzione di denuncia, ma esclusivamente a testimonianza e sintesi delle relazioni che compongono un microsistema emotivo di riferimento.
GM: Al contrario di una fredda analisi documentaristica, i tuoi interventi hanno sempre una dose d’imprevisto che colpisce lo spettatore. Da cosa nasce?
GG: I microsistemi che considero sono dei veri e propri punti di equilibrio, sorretti a volte nella più totale disarmonia. In un intervento del 2009 ho preso in considerazione l’impiego del sangue fresco di maiale come ingrediente per un dolce, di cui conoscevo l’esistenza già durante la mia infanzia. La preparazione di questo dolce diventa una sorta di rito celebrativo che segue l’uccisione dell’animale. Ho focalizzato l’attenzione su alcuni oggetti impiegati, come il vaso che raccoglie il sangue o un’ipotetica pergamena che custodisce la ricetta. Mi interessava la riflessione sul concetto di violenza all’interno di un preciso contesto sociale della tradizione italiana.
GM: Nelle tue opere, le esperienze emotive sono connesse a modi di pensare e agire che danno origine a un senso di appartenenza. Perché?
GG: È vero, mi interessa osservare come nascono alcune regole e in che modo si costituiscono certe forme di appartenenza. Il disegno più ampio che viene a crearsi propone un frammento di rapporti sociali, una piccola “città” nella quale i fatti si intrecciano proprio come le relazioni interpersonali. In alcuni casi emergono paradossi ed estremizzazioni. Allo stesso modo mi colpisce come nascono gli sbagli e gli imprevisti e come tutto questo viene vissuto sul piano emotivo. ?