Maurizio Cattelan: Inizierò con una citazione: in una recensione del tuo programma un anno fa su Artforum sei stato descritto come qualcuno che crea “prodotti artistici in stile Pixar, una visione familiare per un pubblico demograficamente più allargato di quello che si rivolge alla video arte”. Come ti rapporti con tutto ciò?
Guy Ben-Ner: È difficile capire se sia un complimento o meno. Probabilmente no. In ogni caso si tratta di una decisione consapevole.
MC: Cosa intendi per decisione consapevole?
GBN: Ho fatto la mia scelta molto tempo fa, quando ho iniziato a lavorare con i miei figli. L’unico modo corretto di lavoro era quello di permettergli di godere del prodotto finale. Così cerco di fare film che i miei figli possano capire, anche se su piani diversi. In ogni caso credo che non ci sia ragione per non estendere ulteriormente questo tipo di approccio. In generale vorrei comunicare con la gente e non solo con il mondo chiuso dell’arte. Mi vergognerei maggiormente di venire accusato di essere un artista per gli artisti più che un populista, perché è una grossa responsabilità. E quindi si dovrebbe essere anche così arroganti da credere di avere qualcosa di valido da dire.
MC: Sei abbastanza arrogante?
GBN: Credo di sì. L’ultimo video che ho fatto, Second Nature (2008), prendeva in considerazione proprio questo problema: oggi si può raccontare una favola? Non è troppo arrogante credere di poter educare qualcuno? D’altra parte, se pensassi che l’arte non può educare o criticare il mondo, avrei smesso di farla.
MC: In questo video si vedono due addestratori con una volpe e un corvo che recitano la famosa favola di Esopo, La volpe e il corvo. Hai spiegato perché scegli le favole, ma perché questa in particolare?
GBN: Per prima cosa perché è un’icona, come avviene in generale per le favole. In secondo luogo perché è la storia di una formazione, in cui un animale, appunto, forma un altro. Così ho scelto addestratori che lavorano con gli animali per l’industria cinematografica in modo da rivoltare la storia contro la favola: in un certo senso, loro addestrano solo per addestrare e, dunque, diventa quasi una rappresentazione teatrale che non può essere provata per la messa in scena. Una volta Gwen, la cornacchia allenatrice, pensando che facesse parte dell’allenamento, cercò di spingere Oreo, il corvo, a rinunciare al suo formaggio. Tuttavia, la cornacchia recita quanto indicato nella favola stessa, poiché sta rappresentando il ruolo della volpe. Il video è simile a un documentario che all’improvviso diventa finzione — le favole infatti hanno una valenza educativa e si prefiggono di separare la lezione dalla vita realel.
MC: Quindi si tratta di animali professionisti impiegati per i film? Sono già apparsi in qualche altra pellicola famosa?
GBN: Sì. Il mio corvo stava facendo una brillante carriera, era apparso in Harry Potter IV e Matrix. Ma dato che non mi piace vedere le celebrità nei video d’artista, l’ho tenuto in silenzio.
MC: Perché gli addestratori recitano Samuel Beckett quando sono soli?
GBN: Questo è il momento in cui formo coloro che formano, a cui ho chiesto di recitare. Ho anche pensato che Beckett fosse perfetto per attori non professionisti, dato che amo la sua lettura e odio vederlo rappresentato al cinema o sul palcoscenico.
MC: Ma perché il Godot di Beckett?
GBN: Nel momento in cui gli animali si allontanano e i due allenatori restano vicino all’albero, non ho potuto immaginare altro che Godot. La scena, per esigenze narrative, richiede due figure intorno a un albero solitario. È una scelta elegante ed economica, ovvero avere lo stesso set per due storie diverse. Mi piaceva anche la sottile animosità delle figure beckettiane in contrasto con gli animali parlanti delle favole, simile alla combinazione di un ragazzo selvaggio e uno struzzo intelligente.
MC: A proposito di soluzioni economiche, l’economia è stato anche un concetto fondamentale nel precedente video Stealing Beauty (2007).
GBN: Sì, è l’esempio di un film che non costa nulla.
MC: Certo, a buon mercato. Hai rubato i set, non è vero?
GBN: Dovresti anche dire che ho rubato la musica, infatti proviene dagli spot pubblicitari che passavano sugli schermi dell’IKEA di Berlino. Ho registrato direttamente dalla fotocamera. L’idea per il film mi è venuta perché gli ambienti erano più simili a quelli di una sitcom familiare che alle case in cui la gente vive. Così ho sollevato il velo. Ma se nella classica sitcom l’aspetto economico non è legato allo spettacolo, qui i cartellini dei prezzi, in vista ovunque, al contrario unificano i due aspetti.
MC: E per quanto riguarda il rapporto tra le famiglie e l’economia?
GBN: L’idea di famiglia come concetto istituzionale è ripresa da Friedrich Engels — così è richiesto dalla società, in un determinato periodo, per preservare la proprietà privata. Entrambi i concetti sono nati nello stesso momento storico perché ognuno aveva bisogno dell’altro: la famiglia funge da salvadanaio. Dunque, quella sfera privata che tanto amiamo è solo un’interiorizzazione delle richieste esterne, come il super ego. E come nel caso del super ego, obbediamo a queste richieste più volentieri poiché ci illudiamo che siano una nostra necessità. Il cinema classico ci ha abituati a ragionare in questo modo. È noto che Esopo fosse uno schiavo, e leggendo le sue favole capiresti che insegnano a non essere troppo ambiziosi: la rana deve rimanere una rana perché non bisogna cercare di essere ciò che non si è destinati a essere. Questo mi fa pensare che Esopo non fosse uno schiavo ma un’invenzione dei padroni per tenere gli schiavi lontani dal desiderio di quanto non avessero già. Così lui stesso sarebbe un’autorità esterna inserita all’interno di un sistema.
MC: Quando parli di sitcom familiare identifichi un certo genere. Sembra che passi da uno all’altro, dai documentari sulla natura ai video di formazione, alle commedie. Come mai questo interesse per generi così diversi?
GBN: Io non vedo i generi come contenitori vuoti da riempire, sono già pieni di contenuto prima ancora di toccarli. I documentari sulla natura, per esempio, sono lì per farci notare quanto le nostre concezioni culturali siano “naturali”. La sitcom familiare ha anche un fine educativo; quindi, affrontare questo o quel genere è già un modo per trattare con la trama di un film o per raccontare una determinata storia. Da questo punto di vista il video di formazione è un meta-genere: insegna senza cercare di nasconderlo, come le favole.
MC: Ti piace tutto dei film?
GBN: Sai quando sei dal dentista e con l’anestesia va tutto bene e non ci sono dolori? Poi mentre sei sulla tua strada per tornare a casa, l’effetto inizia a svanire e realizzi che è meglio non sorridere perché la bocca ti si storce? E il tuo corpo è come se fosse stato ingannato, come se fosse stato fatto qualcosa alle sue spalle? Io ho amato il cinema. Non provavo dolore mentre guardavo i film, ma poi spesso uscivo con quel sorriso storto sul mio viso, sentendomi allettato.