Il fattore fisico e l’aspetto performativo sono prerogative sostanziali che appartengono visceralmente al lavoro pittorico dell’artista inglese Ian Davenport (Kent, 1966).
È tramite un’azione cadenzata e operata per via iniettiva (attraverso siringhe) che il colore viene colato dall’alto verso il basso depositando su lastre di acciaio inox, su tavole o su carte la traccia del suo viaggio: sequenze parallele di rivoli cromatici verticali che la tensione gravitazionale fa implodere sul fondo interrompendone d’emblée il rigore geometrico e facendoli conciliare in un magma policromo.
Tali prerogative non si esauriscono però esclusivamente alla fase “fattiva” del processo di creazione dei cosiddetti “Puddle Paintings”, ma si riverberano nel lavoro concluso, quando cioè il quadro rinnova la sua tensione verso l’esterno cercando di stabilire un dialogo dialettico con lo spazio e di provocare una vertigine percettiva nell’osservatore.
La mostra “Reflex”, curata da Luca Massimo Barbero, nel suo complesso, esalta in maniera esaustiva ed evidente queste — ma non soltanto — peculiarità del lavoro di Ian Davenport, che emergono in modo particolare in due lavori. Prima, nel grande wall painting realizzato in situ dall’artista sulla parete di fondo dello spazio espositivo, che arriva a coinvolgere il pavimento, su cui la colata dei colori è arrivata a deporsi creando un interessante e generoso segno informale; poi, nell’altro grande lavoro in apertura Puddle Painting Dioxazine, la cui superficie, attraversata da bande di colori primari alternati al pigmento sintetico dioxazine purple, appare come uno schermo pulsante dagli effetti psichedelici destabilizzanti.
La mostra riflette in modo particolare su un altro tema ricorrente nel lavoro di Davenport, ovvero sul rapporto tra industriale e organico, tra tecnologia e manualità, presentando opere realizzate con i colori utilizzati solitamente in fotografia. Il titolo, “Reflex”, non a caso, rimanda all’idea di sintesi cromatica, operata attraverso il processo fotografico, grazie alla quale un’immagine emerge per impressione e per associazione di pigmenti.
In un certo senso, questo tipo di ragionamento sottende anche la ricerca che caratterizza la serie di “d’après”, ovvero i lavori di Davenport che indagano l’uso e il valore del colore nell’opera di geni indiscussi della pittura (emblematici in questo senso i due omaggi, realizzati per la mostra, a Manet e a Bonnard). Distillando dalle opere di grandi le tonalità di colore che ne caratterizzano il tessuto narrativo e la matrice endemica della loro forza espressiva, Davenport le riorganizza nella forma sintetica delle sue sequenze lineari, mettendo a nudo l’essenza, trascendente e astratta, che informa il DNA di capolavori figurativi.