Originariamente pubblicato in Flash Art no. 144, Giugno 1988.
rietà e la mole dei riscontri. Quando, alla fine degli anni Sessanta, l’arte italiana muove i primi obbligati passi nel clima internazionale, De Dominicis è altrove. Nel 1969 sorprende la cultura artistica istigando ai grandi temi dell’esistenza e, inventando un linguaggio (persone metafisiche ma viventi e immobili; titoli lunghi ostinati e complessi; oggetti detemporalizzati; enigmatici disegni ecc.), sposta la riflessione dal problema dello spazio a quello del tempo, coniugandolo con la morte e il mito. Ignora la frenesia dell’attivismo circostante vivendo in solitudine il pensiero della finitezza dell’arte. Sacerdote aconfessionale, installato in uno spazio immobile, eterno e muto come genialità, ha intuito la civiltà dei Sumeri. Ha ricreato, materializzandolo, lo Zodiaco (1970); ha sospeso figure umane nel limbo di una gravità neutralizzata; ha impresso una spinta verso le origini della leggenda dell’uomo realizzando opere con linguaggio mai letterario e ricollegandosi al primo eroe-artista della Storia.
È a Roma nel 1964. Per oltre vent’anni nessuno ha saputo dove abitasse o lavorasse, l’unico recapito che indicava erano alberghi del centro. Il suo gioco cifrato sull’identità è anche un rituale che consente di pensare la ripetizione dei gesti, degli abiti, delle parole come finto dispendio e custodia del segreto. In questo, Roma è, per lui, uno di quei luoghi in cui sfiora attraverso l’arte la categoria dell’impossibile. Niente a che vedere con l’idea della vita come arte. Semmai beffarda anarchia, appannamento delle convenzioni di vita sociale che tendono a espropriare l’io; è invece affermazione della illimitatezza del pensiero attraverso l’urgenza dell’arte. Come l’abito tende a cifrare l’identità della maschera, anche la sua immagine è sostanzialmente inalterata dai tempi delle prime foto degli anni Sessanta. Da questo punto di vista richiama quel Conte di St. Germaine che egli utilizzerà, nel 1970, per dichiarare di non essere lui (Io non sono il Conte di St. Germaine) e a proposito del quale Voltaire riferisce di averlo visto dopo cinquant’anni e di averlo trovato identico. Chi cerca di definirlo non ha successo; come in un caleidoscopio i suoi sembianti sono cangianti; e inafferrabili soprattutto da coloro che hanno tentato invano di imitarlo.
A diciassette anni, tiene la sua prima mostra ad Ancona, città dove è nato nel 1947. Dopo un periodo di viaggi si stabilisce a Roma, dove nel 1969 espone opere realizzate negli anni precedenti, e viene pubblicata la sua Lettera sull’immortalità del corpo. Nel 1972 espone alla Biennale di Venezia, che gli riserva una grande sala. A “Contemporanea” a Roma (1973), dopo un giorno smonta la propria mostra e lascia la sala vuota. Al Kunstverein di Monaco, nel 1971, non identificandosi col raggruppamento in cui era stato a sua insaputa inserito, non espone opere, strappa la pagina del catalogo, al posto del titolo tendenzioso della mostra mette un suo titolo e lo attacca al muro. Nel 1978 espone di nuovo alla Biennale di Venezia; nel 1980 è presente al Beaubourg di Parigi con una sala. Non accetta 1’invito a documenta a Kassel nel 1982. Vince il Premio Internazionale della Biennale di Parigi (1985). Nel 1986 espone con una personale al Museo di Capodimonte di Napoli. Da vent’anni espone quasi esclusivamente a Roma in mostre personali. È stato definito, nel tempo, “genio dell’arte”, “fuorilegge”, “sedicente artista”, “primula rossa dell’arte”. Anche la lettura anagrammata del suo nome (Godi! Cinsi Domine – Godi! Cinsi Demoni) consente, insieme all’imperativo del piacere, di poterlo considerare, contemporaneamente, artista benedetto e artista maledetto, di partecipare della natura divina e di quella terrestre. Nell’epoca degli arrampicatori sociali dell’arte, gli si può attribuire ancora la cifra di Kean: genio e sregolatezza. Quando la Francia gli consegna il premio al Municipio di Parigi è un benedetto. Quando adesca il meccanismo inquisitoriale e subisce un processo per aver esposto alla Biennale di Venezia un “mongoloide” spingendo l’arte nei registri del “crimine”, è un maledetto. Questo gesto radicale ed estremo marchia, con un sigillo infuocato, l’effige dell’arte nel XX secolo. Numerosissimi sono i commenti in tutto il mondo: i giornali oscillano tra l’eclettismo culturale e il moralismo di regime.
L’aneddotica della sua vita è variata. Ma si fonda su tradizioni orali nonostante abbia sempre rifiutato di rilasciare interviste. Una storia infinitamente congetturale è dunque l’opposto di quanto si propone una storiografia. Reagisce, ad esempio, attivamente alla storia delle religioni come alle scienze. Lo scienziato A.M. Liguori (Corriere della Sera, 4.11.1972), in un articolo intitolato Non raggiungeremo l’immortalità, polemizzando con lui lo contesta argomentando a partire dal Secondo principio della termodinamica. Gino De Dominicis risponde organizzando un cocktail a Palazzo Taverna a Roma, dove, tra l’altro, presenta un suo testo che si contrappone alla dogmatica posizione dello scienziato. “Se tutti gli uomini potessero immaginare e desiderare la propria salvezza; la conservazione, cioè del proprio corpo per l’eternita, significherebbe che finalmente non ci sarebbe stata dispersione (entropia) mentale. Quindi il Secondo principio della termodinamica non sarebbe più valido perché contraddetto dal comportamento di un organismo che può progettare senza distrazione (entropia) la propria eterna condizione di ‘sistema isolato’”. Alla contemporaneità, caratterizzata da un’assenza di illuminazione, offre l’intuizione di un tempo dell’immortalità del corpo. Un sogno che fu di una società che aveva prefigurato il prototipo dell’eroe-artista. Dal suo osservatorio romano, con un polveroso cannocchiale, De Dominicis scruta con occhio veggente, ironico e disincantato quella immortalità, non solo per carpirne il significato ma anche per spiazzare il proprio tempo recuperando la forza prodigiosa dell’illusione. In questa aderenza alla mobilità delle cose sta il motivo per cui in questi viaggi nel “mito” il senso del suo lavoro non si cristallizza mai in un repertorio formale. Mercuriale per vocazione; giramondo etnocentrico e stanziale; uno dei misteri della sua arte sta nell’unire il massimo della profondità intellettuale con il massimo della mobilità formale usando gli oggetti, le figure e i materiali del mondo per comporre una rapsodia ogni volta diversa e sorprendente. E questo gioco dell’arte si incardina sulla verticalità. Verticalità del tempo; anzitutto. E quindi anche immortalità. L’immortalità dell’anima è un postulato di molte religioni. Solo i Sumeri, per i quali il dio è fisico e immortale, dicono l’immortalità del corpo. Con questa misteriosa civiltà del vicino oriente si è imbattuto rilevando coincidenze con pensieri e opere da lui realizzate. È seguendo la deriva di questo problema che De Dominicis volteggia sulla cultura della sua epoca contraendo lo spazio e il tempo fino a renderli immobili, fisici; liberando figure che hanno il fascino dell’allucinazione, quasi come extraterrestri ma qui e ora, contemporanee o resuscitate per un miracolo di entropia, rinviate eternamente sull’immanenza di una vita anteriore o di una vita illimitatamente di là a venire. Nessun tempo ci separa e nessun legame ci unisce a quell’immagine che, ieri come oggi, dagli uomini dei Seggiolini alla divinità sumera, dal Mongoloide ai Gemelli, dalle figure dello Zodiaco a Gilgamesh si materializzano emergendo da un tempo che non è Storia.
Realizzando opere come il Ritratto di C. C. G., la Madonna che ride, il disegno senza titolo del 1970, la grande tavola con la Sfinge, la Tibetana, la Maja, la Madonna, la Sumera unite ripropone nell’arte la donna, la figura femminile come archetipi. Anche il testo sulla Immortalità (1966-1969) è una lettera rivolta a una misteriosa donna: (“Cara… io penso che le cose non esistono, per esistere veramente dovrebbero essere eterne, immortali, solo così non sarebbero solamente le verifiche di certe possibilità della natura ma veramente cose…”).
L’esperienza del tempo che avanza in lui non è né lineare né ciclica. Egli si fa interprete di una visione tragica che evoca sia l’enigma della vita sia l’ostinata e indulgente ironia con cui anche oggi si può contemplare l’insensata gemma della morte: La vita dice alla morte: “Per esistere lei deve eliminarmi ed è per questo che è stata sempre odiata; a me, invece, per esistere basta che lei rimanga alla debita distanza, questa è la differenza”. La morte colta, di sorpresa, risponde qualcosa e in quel momento si accorge di poter esistere anche lei autonomamente. La vita allora… (titolo di una tempera del 1983). Tuttavia, la sua visione non è mai fondata sul fantasma. Il suo occhio può essere disincantato e leggero; fulminante e indagatore; danzante o fisso ma è sempre la prima volta che vede l’oggetto che gli si pone dinanzi. L’occhio che vede per la prima volta quegli oggetti o quei panorami non usa gli alfabeti con i quali si tramanda il loro messaggio. Questa insuperabilità del messaggio è ciò che in lui si converte in distanza. Per questa ragione i suoi incontri non sono mai ravvicinati: sono carichi di una grande concentrazione hic et nunc ma avvengono sempre nella rarefazione e nella smisurata dilatazione di un tempo e di uno spazio che non è quello dell’esperienza comune ma quello di un evento cosmico. La prospettiva dalla quale De Dominicis guarda il proprio lavoro è una prospettiva antidiluviana. Mentre il carattere fondamentale dell’uomo è la staticità e l’annichilimento di fronte a un cosmo che è il vero soggetto del mondo, egli entra in sintonia con quella varietà e quella complessità. Un’asta perfettamente tornita, posta verticalmente, che, acuminata nella parte rivolta verso terra, poggia in un solo punto e rimane in equilibrio, è un motivo ricorrente nelle sue opere. È d’oro nel 1967 e verrà esposta a Roma nel 1969 e tra i Gemelli (1973); compare ne Il tempo, lo sbaglio, lo spazio (1969), dove uno scheletro umano con i pattini la mantiene in bilico con il dito mentre tiene uno scheletro di cane al guinzaglio; all’interno della Piramide invisibile (1977) a Roma; è azzurra e stellata al Castello di Rivoli (1984); torna nel grande disegno su tavola con le figure in amore del pieno-vuoto in simbiosi vertiginosa (1984); è impugnata dalla grande figura nera del 1983. Anche un’opera del 1967 (esposta nel ’69) si fondava su una tensione verticale (rappresentata da una catena argentata che “miracolosamente” sollevava da terra un cilindro di metallo argentato colmo d’acqua facendo presa con un gancio sull’acqua stessa).
Le statue invisibili del 1978-79; Urvasi e Gilgamesh che si affacciavano sulla finestra di Piazza del Popolo a Roma (1983) e il monumentale compendio esposto al Museo di Capodimonte (1986). Un’opera del 1981 (ora al MoMA di New York) è intitolata In principio era l’immagine (e non “in principio era il verbo”). Davanti alla grande testa, al centro della sala, l’artista aveva collocato un water. Ma tale oggetto, nonostante il contesto, non diventava un’opera d’arte rimanendo semplicemente un comune water (come auspicato dall’autore). L’immagine è dunque l’entità prima produttrice di segno, sia quando si manifesta in modo esplicito e compiuto: i disegni senza titolo del 1970; sia quando procede abusivamente, per sospensioni o evocazioni (Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi intorno a un sasso che cade nell’acqua, 1969); Pericoloso morire (1970); sia quando sembra coinvolgere il movimento (la Palla blu che si muove da sola, 1967); (Poltrona per un viaggio nello spazio, 1969) (…Sulla Terra che non è una sfera e non fa parte dell’universo, che non è in espansione e tanto meno in un unico verso) o nell’opera Attesa di un casuale movimento molecolare generale in una sola direzione tale da generare un movimento spontaneo della pietra del 1966; e sia infine quando l’immagine viene invocata e utilizzata per mettere in questione il principio di identità (Io non sono il Conte di St. Germaine, 1971) e in “Io”, “dopo”, smemorato guardasala del museo mentre osservo le opere di un certo Gino De Dominicis (1987); o altre opere: gli Uomini sospesi (1970); la Piramide invisibile galleggiante nel vuoto (1987); il biglietto di Auguri per la immortalità del corpo del Natale 1971. L’immagine è centrale anche nel tema del tempo. La Palla di gomma (caduta da due metri) nell’attimo immediatamente precedente il rimbalzo (1968) consegna a se stessa la dimostrazione del proprio assunto. Mentre, nelle 2 età, il doppio ritratto dell’uomo affida a un’impossibile sincronia il rapporto dissimmetrico tra il tempo storico e il tempo della finzione, il Tentativo di volo del 1969 ironizza sull’evoluzione antropologica.
Favorendone i sortilegi, De Dominicis forza le capacità medianiche e ingovernabili dell’immagine indagandone le coincidenze. Nel 1970 individua una figura esistente solo in quel momento tra il fogliame e la Fontana di Palazzo Taverna a Roma e la evidenzia per sempre; del 1973 è l’Ovale perfetto eseguito a mano libera. Tre anni prima aveva eseguito un omino al centro di un grande foglio quadrato. Un’immagine apparentemente banale, eppure in quello schizzo c’era qualcosa che lo colpì. Lo ripetè, lo pose in sequenza, poi in circolo: scoprì che quel disegno aveva la proprietà di concatenarsi ventidue volte producendo un cerchio perfetto che chiudeva lo spazio in geometrica scansione. Quel lavoro aveva fissato una probabilità su un numero infinitesimo, vertiginoso per un disegno non geometrico.
Dal 1964 in poi realizza numerosi disegni a penna e a matita di piccolo o minuscolo formato. In altre opere, come nella trasmissione medianica, procede per scariche di segni (Figura con mani incrociate,1985). È come se ogni immagine attendesse il suo attimo di rivelazione per scomparire (vedi le sculture nere “inesistenti” inserite nelle foto di ambienti, 1971-75); o come quando, in una memorabile serata del 1976, a Palazzo Taverna, fece “sparire” una persona; o nella Macchina che fa sparire gli oggetti (1968). Opere come il Bassorilievo della testa bidirezionale (1983); le grandi figure rosse su nero e altre realizzate sotto la spinta di riferimenti erotici; le grafiti e le grandi tempere degli anni 1985-86; il Profilo con simboli su vetro (1973); (…di solito noi ricordiamo più bella una persona di profilo perché non poteva vederci…, 1972) e l’ironica, e “omeopatica” Mozzarella in Carrozza (1970), appartengono alla forza della materializzazione come anche le opere degli anni Settanta dove apparentemente predomina il corpo.
Nel cocktail per festeggiare il superamento del Secondo principio della termodinamica viene utilizzato uno spazio antico illuminato per 1’occasione con candele per celebrare un evento futuro (2050) che interveniva al presente. II Sig. Paolo Rosa (abusivamente divulgato dai mass-media con il nome della propria patologia — Il Mongoloide — altrettanto abusivamente “gratificato” dai giornalisti-fotografi che gli apposero sul petto il cartello col titolo) che documentava la 2a soluzione di immortalità (L’universo è immobile) è la negazione della scelta della rappresentazione: un corpo senza immagine che non è mai posto di fronte alla possibilità di rappresentazione di se stesso. La sua vera patologia è l’implosione, la ridondanza, la parola che non si dice, la memoria ablata, l’impossibilità di sfuggire dalla propria inerzia, la fuga dalla forma e dal tempo. Il buio. In quel buio si colloca l’inaudita mostra il cui ingresso era riservato solo agli animali (Pescara, 1975). Nei Gemelli invece la materializzazione è concentrata sulla scena del corpo a partire dallo sguardo che si riflette.
La pulsione di morte e la logica dell’abisso rendono possibili altri punti d’osservazione del suo lavoro: l’anticipazione, su un tempo incalcolabile, del grado zero in seno della vita stessa; l’annullamento del soggetto e la rivelazione della sua parte maledetta. Le Statue invisibili, il Manifesto con cui annuncia la propria morte (1969); la Pietra (1966); l’Ubiquità dei vasetti (1968), D’Io (1970); le sbarre “violate” (1979); i volti neri o rossi con i lunghi nasi in terza dimensione (1985-86); i disegni argentei su fondo nero (1984-86); i mille omini colorati che ricoprivano tutte le pareti della galleria (1973); il disegno di donna (1970); la Risata continua (1970); l’orologio a specchio (1970); l’anello con pietra a perfezione geometrica interna (1970); le grandi tavole della coppia e del trio con città sullo sfondo (1985-86); la summa dei tempi e degli spazi esposta al Museo di Capodimonte con la lunga opera con figura e simboli uniti (1986); il segreto di uno spazio visibile da un piccolo foro ove il restauro di una dea giallo-oro su fondo blu posta sotto una luce di stelle elettrica guarda con occhi umani il presente (1984); queste opere non sono più una scena. Neppure la scena della sospensione della scena. Come la mostra ripetuta identica a un anno di distanza nello stesso giorno, alla stessa ora, nella stessa via, nello stesso spazio, con identici inviti (Roma 14.01.1977-14.01.1978), il Notturno sul mare con profili ed entità luminosa nel cielo; la testa del bassorilievo bianco (1987); Con titolo (1972); la grande figura monocula giallo-viola nel firmamento (1976). Come lo specchio che tutto riflette tranne gli esseri viventi (1969), come lo stesso quadro che si manifesta nel cosiddetto “diavolo” (1986) che poi scompare per sempre (1987) e laddove lui compare davanti al grande volto rosso (1985) come guardia del corpo dell’opera. E tutti quegli altri di impossibile nominazione di un’arte che non deriva dall’arte.
Più di tutti i moderni, Gino De Dominicis riesce a collocarsi, mediante l’arte, in un dominio carismatico che è dentro e al di là del linguaggio, e ha espresso un’idea “forte” che, corteggiando il talismano dell’immortalità, contiene il pensiero tragicamente dimenticato nel XX secolo e ha dato il volto all’enigmatico iconismo di prosciugate figure destinate a rappresentare la differenza stravolta delle icone del Duemila. Se trasportassimo con una macchina del tempo le sue opere in altre epoche e in altri luoghi, queste, nonostante la loro impassibile contemporaneità, non perderebbero nulla della loro capacità evocativa. Siamo sulle tracce di Gino De Dominicis. Continuiamo a spiarlo.