Un po’ di tempo fa mi è capitato di leggere un’interessante inchiesta svolta dal Financial Times Wealth dal titolo esplicito: “Money meets Art”.
Non che sia una novità, ovviamente. Neppure un fenomeno da ascriversi ai nostri pirotecnici tempi moderni, anni in cui le bolle speculative si alternano nel colpire immobili, metalli, cereali e anche svariate forme di produzioni artistiche. Tutti sappiamo che l’arte e il denaro nel corso degli anni si sono spesso congiunti e coniugati nei modi e negli amplessi più disparati. Per vanto e passione di papi e principi, l’Italia ha ereditato il suo bene più grande: il suo patrimonio artistico.
Il Financial Times descriveva tuttavia un fenomeno piuttosto recente e universalmente diffuso. Annunciava l’avvento di una nuova classe di super wealthy, sempre più protagonista nelle acquisizioni dei beni artistici e nella definizione di collezioni prestigiose e irripetibili. Nuovi e copiosi oligarchi che dopo aver sconvolto le quotazioni del mercato finiscono per rubare la scena alle istituzioni. A ognuno il suo Palazzetto dell’arte, a ognuno la sua Fondazione, il suo spazio spesso più o meno sperimentale, più o meno istituzionale. Sempre e comunque con maggiori possibilità di garantire continuità (nella programmazione di eventi) e crescita (nella collezione). Oltre le politiche altalenanti dei governi e i tagli alla cultura e all’arte.
Una significativa tranche di nuovi spazi e gallerie si stanno espandendo a macchia d’olio nei cinque continenti mostrando sempre più quanto l’arte sia fortemente appetibile e seducente per il nuovo capitalismo.
Nuovi edifici, nuovi templi realizzati talvolta da archistar come Tadao Ando o Frank O. Gehry. Comunque sia, prestigiosi scrigni destinati a ospitare molti di quei trofei vinti in asta e di cui poco si legge sui giornali. Mausolei dove i nomi spesso più in voga della scena artistica contemporanea trovano il loro spazio, la loro prima fila in congrue stanze scientificamente concepite per ospitarli. Capolavori che entrano nei solenni musei privati e diventano ancora più capolavori. Aumenta, legittimamente, il loro valore e diminuisce, purtroppo, la loro possibilità di presenziare nelle collezioni spesso esanimi dei buoni, vecchi musei pubblici.
Statisticamente, ammettiamolo, è più facile e ricorrente imbatterci in un’opera significativa di Richard Prince, Damien Hirst, Maurizio Cattelan e Jeff Koons nel Palazzo del signor Pinault a Venezia o nel Garage di Dasha Zhukova a Mosca, o nei due musei del messicano Carlos Slim, l’uomo più ricco del mondo secondo la classifica di Forbes Magazine. Una lista lunga e in continua crescita.
È piacevole sapere che l’arte è ancora apprezzata e corteggiata da persone così potenti nei loro settori e non solo. Tra l’altro anche l’edizione di quest’anno del Festival dell’arte contemporanea di Faenza intende, con il suo titolo “Forme della Committenza”, analizzare questo aspetto.
Ma la conclusione dell’inchiesta di Edwin Heathcote, designer e architetto, consulente da vent’anni del Financial Times, mi ha fatto riflettere. Sostiene che i tagli alla cultura sono dovunque nel mondo così gravi e poderosi da ridurre drasticamente il portato culturale delle istituzioni pubbliche. L’epoca dei grandi musei sta per tramontare. Le fondazioni private invece dispongono di budget così cospicui da permettersi di poter acquisire ciò che più desiderano. Se i grandi musei non potranno arricchire le loro collezioni con opere significative e se dovranno ridurre la loro relazione con il pubblico, come potremo orientarci senza il loro fondamentale ruolo di riconoscimento del lavoro artistico?
A chi sarà affidata o delegata l’identità culturale del nostro tempo?
Tutti i ruoli sono importanti e tutti idealmente concorrono al benessere dell’umanità, ma ognuno deve avere il suo posto e non fagocitare quello degli altri. Se così fosse la verità sarebbe in pericolo e il pericolo sarebbe per tutti, anche per chi di denaro ne ha molto.
Il riconoscimento della qualità di un’opera non può essere un bene comprabile e il rischio di supervalutazioni errate è sempre più in agguato insieme a quello di immotivate svalutazioni.
Credo che in un contesto così selvaggio la figura del curatore potrebbe rivelarsi cruciale.
Questa professione, relativamente recente, dovrebbe avere la capacità di creare relazioni virtuose tra artisti e musei, tra artisti e collezionisti e potrebbe, forse, rappresentare la componente culturale indipendente delle istituzioni, pubbliche o private che siano.
Dovrebbe essere affidato a loro il ruolo di elaborare l’estetica del XXI secolo.
Questa è stata anche la mia esperienza personale di collezionista. Tre anni fa ho scelto di implementare la mia collezione con l’aiuto di un curatore. Ho avvertito il bisogno di fare un passo oltre e di esprimere un senso di rispetto verso l’arte che amo. Un passo importante che mi ha permesso di crescere anche culturalmente. Solo oggi, tra i miei desideri più forti, c’è anche quello di progettare uno spazio dove mostrare al pubblico le opere e le idee che mi emozionano. E confesso di aver sempre confidato nell’energia delle grandi passioni.