Si sa quanto difficile sia realizzare una Biennale, oggi, specialmente quella di Venezia che per il suo carattere di ammiraglia deve mantenere un delicato equilibrio tra divulgazione e innovazione. Però la necessità dell’equilibrio non dovrebbe consentire di restare nel vago, e tanto meno di tenersi fuori dagli snodi importanti della ricerca. L’idea principale della rassegna internazionale curata da Bice Curiger ruota attorno alla luce e alla riconnessione tra contemporaneità e storia, con la presenza di quei tre Tintoretto che dovrebbero dare il la a tutta la mostra. A parte che ci si potrebbe chiedere perché Tintoretto e non Caravaggio, che su questioni di luce e ombra dovrebbe avere la maggiore voce in capitolo? Oppure, se il problema era l’origine geografica, perché non Tiepolo, pure lui veneziano, e quanto al secolo più adatto del suo predecessore a rappresentare il riferimento all’Illuminismo, altro aspetto evocato dal titolo della mostra? Ma al di là della scelta dell’autore di riferimento, la domanda che sorge spontanea, dopo un momento di offuscamento dovuto a troppa luce, è se questo è davvero un tema importante e interessante oggi, se la luce è all’ordine del giorno, se la curatrice ha toccato un tasto significativo per la nostra società, o almeno per l’evoluzione dell’arte contemporanea. La risposta è “certo che no”, dato che anche lasciando perdere il suo aspetto concreto, e prendendo la luce solo come metafora, ricondurre il dibattito tra razionalità e irrazionalità contemporanea all’età dei lumi o addirittura all’esperienza pittorica del Rinascimento sembra completamente fuori luogo nell’epoca della televisione, di Internet e dei cellulari. Insomma, dire che la mostra manca di basi teoriche è dire ancora poco.
Lasciando da parte dunque una certa debolezza curatoriale, veniamo alla rassegna in sé. Che però, date le premesse, non può che manifestare debolezze e limiti. La questione della luce nella sua forma più diretta è presente in una serie di lavori: da Gianni Colombo a James Turrell, ad Amalia Pica. Una luce metafisica, astratta: è questa la necessità che la curatrice vuole suggerire per il nostro tempo? Abbiamo bisogno di sfuggire dai problemi concreti e dobbiamo invece lasciarci trasportare da visioni eteree in spazi anecoici? Senza considerare che l’indirizzo dato, ha portato alcuni artisti a lavorare espressamente sul tema, producendo spesso lavori che includono in sé il limite curatoriale, come, spiace dirlo, le italiane Benassi e Bonvicini, che con luci e specchi sembrano riflettere un’eccessiva e facile adesione al tema, manifestando una debolezza di ricerca personale. Lo dico perché stimo le due brave artiste, e credo che questa riflessione sia per loro da prendere più come avvertimento.
Di fronte a tanta luce, quasi per contrasto, è per la prima volta presente in una quantità significativa quell’ambito internazionale di ricerca “opaca”, che negli ultimi anni ha riportato in auge la materialità insieme alla manualità: Nairy Baghramian, Ida Ekblad, Shahryar Nashat, Carol Bove, o, seppure con qualche anno in più, Rebecca Warren. L’oggetto realizzato in modo manuale, talvolta addirittura artigianale, persino la scultura prodotta con materiali tradizionali, quali la creta o il metallo, che qualche decennio fa sembravano essere stati cancellati dal panorama artistico, tornano ora alla ribalta. Seppure personalmente dubito della necessità di guardare il passato, non si può non ammettere che queste modalità sono molto diffuse oggi, non certo imposte dalla curatrice, e dunque è un fatto che va in qualche modo registrato. Anche se forse bisognerebbe chiedersi quanto ciò rispecchi una profonda esigenza, e quanto invece non sia moda, stile internazionale. In generale, comunque, si assiste a una sorta di richiamo all’ordine, manifestando come, anche se non nel modo evidente che si osservò nei primi anni Ottanta, una grande fetta dell’arte contemporanea volga gli occhi indietro, si ritiri in una torre dove l’opera basta a se stessa. Ma attenzione, perché ora come allora ciò significa anche relazione stretta con il mercato, puntando su un’arte oggettuale che ovviamente fa piacere ai collezionisti, ma allo stesso tempo la racchiude in un’elite di appassionati, in un linguaggio fatto di riferimenti interni che fatica a tenere il passo con la creatività delle nuove tecnologie e con la richiesta di partecipazione dell’utente contemporaneo.
Si potrebbe pensare che è un’onda ineludibile, che l’arte nell’ultimo secolo ha sempre oscillato tra spinte avanguardistiche e richiami entro recinti più convenzionali. Se non fosse che nello stesso momento un altro curatore, questa volta l’artista polacco Artur Żmijewski a Berlino sta preparando una Biennale “politica”, che intende addirittura abbandonare la sfera dell’artisticità per farsi strumento di discussione e di cambiamento sociale. Ma certo, per giudicare dovremo attendere il prossimo anno.
Come sempre non tutto è da buttare. Intanto ci sono i lavori ambigui, minimali, come le strutture precarie di suoni e luci di Haroon Mirza, o i cestini dei rifiuti di Klara Liden, o la moneta incollata a terra di Ryan Gander. Il rischio, in una Biennale ammiraglia come quella di Venezia, per queste opere è di sparire, di essere sconfitte nella sottigliezza del gioco del rapporto con la realtà al punto da non essere proprio riconosciute. E allora, tanto vale scommettere proprio sull’assenza, come ha fatto Giorgio Andreotta Calò, compiendo un percorso che dal suo studio di Amsterdam lo riporta a piedi alla sua città natale, dichiarando che l’arte è ormai inevitabilmente processo, e che la sua oggettualizzazione non è nemmeno possibile.
Poi ci sono i Parapadiglioni, costruzioni artistiche create per ospitare altra arte. Più che per i risultati concreti, quest’idea sembra vincente per un certo grado di follia, per l’intrinseca utopia di essere circondati da un mondo tutto “fatto ad arte”, compreso lo spazio che la ospita. Nulla da dire sul vincitore del Leone d’oro, Christian Marclay, il cui lavoro The Clock, il collage lungo 24 ore di spezzoni di film con lancette che indicano a ogni momento l’ora esatta, è un capolavoro di razionalità occidentale. Il fatto che la curatrice sia svizzera e anche l’artista sia di origini svizzere potenzia anziché rendere ironico il tema del tempo frammentato, consequenziale, proprio dello strumento di misura che della Svizzera è persino fin troppo facile elemento simbolico. Per continuare nella lista dei migliori, c’è anche Urs Fischer, i cui monumenti che bruciano lentamente come candele sono una chiara ironia, quasi letterale, rispetto al tema assegnato dalla Curiger: il rapporto con il passato e la luce. Infine non si può non segnalare il lavoro di Maurizio Cattelan che, decidendo di partecipare con la stessa opera con cui era stato presente quattordici anni fa — i piccioni impagliati sparsi per le sale del vecchio Padiglione Italia — , ammette insieme un limite personale e generale dell’artista oggi, ed esprime la più chiara e forte riflessione sulla staticità della nostra condizione, sulla ciclicità della storia, e sul senso di attesa, di minaccia quasi, che il numero decuplicato di uccelli rispetto al passato può suggerire.