Lucia Longhi: Che importanza hanno i mezzi di comunicazione nei progetti di Maurizio Cattelan e nelle sue azioni? È corretto affermare che alcune delle sue opere non sarebbero complete senza l’intervento di stampa e giornali, che lui calcola fin dalla fase progettuale?
Massimiliano Gioni: Innanzitutto bisogna dire che al giorno d’oggi i media sono fondamentali per qualsiasi artista perché rappresentano il pubblico e l’audience per interposta persona. Nel caso di Maurizio ovviamente i mezzi di comunicazione hanno rappresentato una delle tecniche principali del suo lavoro. In inglese per indicare tecnica mista si dice mixed media e se si dovessero elencare le tecniche di cui si serve Maurizio, accanto a “scultura in cera” o “installazione”, si dovrebbe scrivere anche “mezzi di comunicazione” o “tecnica mista con media”. Quando usi il termine “calcolare”, però sembri suggerire un’idea di cinismo che non penso appartenga al mondo di Cattelan. Semmai è una questione tattica. Una delle sue prime opere — quella in cui mette se stesso in copertina di Flash Art — si intitola proprio Strategie. Sin dall’inizio quindi Cattelan rivela il desiderio di lavorare all’interno dei media, della stampa, della pubblicità, per ricavarsi uno spazio, per usarli in maniera parassitaria, contro se stessi e a proprio favore. Bisogna anche sottolineare che il lavoro di Maurizio cresce in un momento in cui i media subiscono una trasformazione radicale: la sua opera si deve collocare nel contesto italiano e internazionale degli anni Novanta, quando i mezzi di comunicazione attuano una vera e propria rivoluzione. Sono gli anni della CNN, della globalizzazione dell’informazione che, come diceva Derrida, “informa i fatti”. In Cattelan i media fanno da cassa di risonanza alle sue leggende urbane e alla sua mitologia individuale. L’intero tòpos dell’artista nullafacente, di artista pigro ma di successo, è tipico della leggenda dell’artista di cui Maurizio si appropria riutilizzandola in maniera contemporanea. Alcune opere di Cattelan esistono solo nello spazio mediatico, come per esempio la campagna elettorale “Il tuo voto è prezioso, tienitelo” apparsa unicamente sui giornali. E tutte le sue opere vivono una specie di seconda vita o una serie infinita di vite nei media. La scultura del Papa è un oggetto fisico, ma è la sua penetrazione nei media che lo rende un’opera d’arte, soprattutto quando viene attaccato — vedi la polemica in Polonia — o quando suscita reazioni a catena ogni volta in cui viene esposto. Un altro esempio è la mostra dei bambini impiccati con la Fondazione Trussardi: un’opera la cui esistenza fisica è durata meno di 36 ore, ma la cui esistenza nei media e nella memoria pubblica è durata ormai quasi un decennio. A ciò si può aggiungere il caos suscitato dalla presentazione delle macerie del PAC, finito sulle pagine di tutti i giornali, che Maurizio cavalca e utilizza, guida e dirige.
LL: Quindi i media sono parte integrante dell’opera di Cattelan?
MG: Nell’opera di Maurizio c’è un aspetto paragonabile al ruolo di regista: in fondo Cattelan non fa niente con le sue mani, ma manipola contesti e significati e usa la sfera dei media come un teatro pubblico che dirige, nel quale si muovono moltissimi personaggi, ciascuno a mettere in scena la propria maschera, il proprio ruolo, in una specie di esperimento sociologico.
LL: Nel tuo articolo in “Being Cattelan” di Abitare affermi che “l’arte è sempre relazionale, e gli artisti non crescono in un vuoto. Hanno bisogno di un pubblico e di una comunità, hanno bisogno di un tessuto di scambi e partecipazioni”. In che modo l’arte di Cattelan è relazionale? Credi che i mezzi di comunicazione facciano parte di questo “tessuto di scambi e partecipazioni” che sostiene il suo lavoro?
MG: In quell’articolo ovviamente facevo riferimento all’etichetta dell’estetica relazionale, concetto formulato dal critico francese Nicolas Bourriaud. L’arte di Cattelan è sempre arte pubblica, anche nelle sue opere più intimiste e private.
LL: Eppure quando la Grenier nel suo nuovo libro chiede a Maurizio come si pone rispetto all’estetica relazionale, lui risponde che la cosa non lo ha mai riguardato.
MG: Qualsiasi artista a cui tu chieda se fa parte di un movimento risponderà di no. Però è vero che l’opera di Maurizio, rispetto ad altri artisti, come per esempio Rirkrit Tiravanija, non si basa su un’idea di partecipazione festiva. Nel suo lavoro le relazioni sono sempre conflittuali: o si sta insieme, ma controvoglia, come il parassita sull’animale di cui si nutre — esempi tipici di questo atteggiamento sono la copertina fasulla di Flash Art o la vendita del suo spazio espositivo alla Biennale di Venezia del 1993 — oppure la collaborazione è asimmetrica, concetto quanto mai contemporaneo. Le relazioni messe in scena da Cattelan sono spesso frutto di un sopruso o di una violenza: pensa a quando appende il gallerista al muro o quando lo veste da coniglio. Dunque ha ragione Cattelan nel dire che non si identifica con l’estetica relazionale, perché nella vulgata di Bourriaud c’è l’idea di partecipazione felice e comunitaria. Quella di Cattelan invece è un’estetica tragica o tragicomica.
LL: Infatti a lui interessa sottolineare gli aspetti tragici della vita, creando un coinvolgimento indiretto, basato più sulla condivisione di un sentimento comune.
MG: Per Cattelan lo spazio pubblico è un luogo di conflitto creato da un trauma: la partecipazione è scontro di opinioni che non si risolve mai in uno stato pacifico. L’atto di tirare la pietra al Papa è una metafora del suo modo di lavorare: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”, “Scagliare la pietra e nascondere la mano”. Cattelan crea l’opera pubblica grazie a una frattura anche dolorosa della normalità, un trauma con il quale ci dobbiamo confrontare tutti.
LL: C’è un aspetto autobiografico in questo atteggiamento? Lo spazio pubblico fa paura a Cattelan?
MG: Non bisogna mai forzare le vicende personali… C’è un altro aspetto importante: per rendere l’opera appetibile ai media, media-friendly, Maurizio è bravissimo nel comprimere i significati in una sintesi estrema. Maurizio dice sempre che le sue opere devono poter essere riassumibili in una frase, in una telefonata, in pochi secondi.
LL: Sì. È un livello di comunicazione molto semplice, adatta ai media perché diretta.
MG: In inglese per indicare un concetto stupido e banale, una cosa di una sola riga, si dice, con accezione negativa, “one liner”. Quello che invece Maurizio cerca di fare è ridurre il concetto base così tanto da essere trasmissibile a tutti, ma allo stesso tempo a quella forza sintetica deve corrispondere una grande complessità dell’opera. È vero che l’Hitler in ginocchio può essere descritto in tre parole, ma la densità di significato che evoca quell’immagine è molto più complessa e ci vogliono tante altre frasi per scardinarne l’interpretazione. Le sue opere sono compresse: si possono raccontare in poche parole, sono perfette per dei comunicati stampa, soprattutto quelle che hanno raggiunto maggiore visibilità. “Il Papa colpito da un meteorite” o “Hollywood sulle colline della Sicilia”, o ancora “Un dito medio di fronte alla Borsa” sono titoli perfetti… E ancora, Hitler in ginocchio può essere interpretato in mille modi, ed è proprio in quella apertura all’interpretazione che si colloca il ruolo del pubblico e dei media, perché tutti possono apportarvi un proprio contributo interpretativo.
LL: Bonami ha scritto che Cattelan lavora come un pubblicitario…
MG: Maurizio è un grande consumatore di immagini. Le sue riviste sono espressioni di quella bulimia dell’immagine costruita a tavolino che deve avere un’ambiguità, una molteplicità di interpretazioni di cui l’opera d’arte vive. E le sue sculture sono sempre anche evento: nelle sue installazioni si ha sempre l’impressione di essere al cospetto di un qualcosa che è appena accaduto. E questo aspetto è molto importante per l’utilizzo che fa dei media, perché i mezzi di comunicazione adorano gli eventi, la notizia fresca, il fatto appena accaduto. Di nuovo, l’Hitler in ginocchio, il Papa che cade, l’animale appeso…
LL: Sono immagini da telegiornale, da cronaca.
MG: Sì, ma hai la sensazione che la cronaca stia avvenendo solo per i tuoi occhi, che si ripeta ogni volta. Quando crea le sue sculture, Cattelan ne immagina sin da subito la traduzione bidimensionale, in immagine. Delle sue sculture di solito circola una sola immagine che diventa la versione mediatica dell’opera.
LL: Una versione mediatica dell’opera che lui ha già calcolato in precedenza.
MG: Questo è un aspetto importante. Anche un’opera complicata come Hollywood, perché esista in una traduzione bidimensionale, deve essere fotografata in modo accattivante, per poter competere con le altre immagini dei media. Le sue foto sono studiate, concepite per bucare la pagina: da quel punto di vista Cattelan è un grande photo editor che ha sempre il polso dei media, sa che cosa passa, che cosa funziona.
LL: Cioè sa già che le sue opere e le sue immagini compariranno non solo nelle riviste specializzate ma anche sui quotidiani e settimanali?
MG: Forse proprio perché non ha studiato arte o forse perché è appassionato di Andy Warhol e di altre figure di grandi comunicatori, Cattelan coltiva questa idea di arte come grande racconto o fenomeno popolare che parla a pubblici assai stratificati. Maurizio è un grande artista popolare, perché si disinteressa quasi del pubblico degli esperti.
LL: Ora, però, mi interesserebbe parlare dell’alter ego. Per anni tu sei stato la sua voce e spesso il suo volto, una scelta ben precisa etichettata in vari modi: pura strategia mediatica, tecnica di fuga e sopravvivenza dettata da una vera paura del confronto, oppure ancora una semplice buffonata. A distanza di anni, come leggi questa trovata dell’alter ego?
MG: Probabilmente era tutto quello che hai detto. La parola “trovata” a me non piace perché è monodimensionale, mentre uno degli aspetti più interessanti di Maurizio è la complessità dei suoi gesti. Ultimamente lo prendo in giro perché penso che la sua opera più brutta sia questo benedetto dito in piazza Affari: è così monodimensionale; perde la molteplicità di interpretazioni…
LL: Sembra esserci un messaggio talmente forte, dovuto anche alla posizione dell’installazione, che prevale su gli altri possibili messaggi.
MG: Quello che ho sempre apprezzato del lavoro di Maurizio è quest’idea del messaggio che si infiltra perfettamente nei media, ma che resta fortemente equivoco. I messaggi univoci sono roba da pubblicità. La confusione, l’indecisione, l’ambiguità sono sempre stati valori che rendono il suo lavoro unico, perché anche nel cuore dei media — in “media res” si potrebbe dire scherzando — si devono coltivare il caos e l’ambiguità che i media di solito non sopportano poiché pretendono la verità. Quando Maurizio decide di usare me come suo portavoce, si crea immediatamente uno scardinamento del meccanismo mediatico: non si sa più quale sia la verità, la vera voce dell’artista.
LL: Quindi un voluto depistaggio?
MG: Sì. Depistaggio, confusione. Quando parlavo al suo posto, io a mia volta copiavo da altre fonti, e il tono non doveva mai apparire troppo vero. Bisognava insinuare il dubbio nel giornalista che in fondo quello che stava ascoltando fosse una finzione.
LL: Allora non saprò mai se quello che mi stai raccontando è vero?
MG: Ma non lo so nemmeno io. Ho conosciuto Maurizio a Flash Art nel 1998. Era l’epoca del Picasso al MoMA e lui iniziava a esporre con Marian Goodman. Era un momento importante nella sua carriera perché aveva ottenuto il riconoscimento in America, e questo cambiava la sua visibilità anche in Europa.
LL: Finalmente si liberava di quell’etichetta di “giovane artista italiano” che gli stava stretta.
MG: Nel 1998 facciamo questa intervista per Flash Art, in cui non voleva mai parlare del suo lavoro in prima persona, perché sosteneva che non aveva niente da dire, che non era capace e così via. Barbara Casavecchia e io facevamo le domande, Maurizio nel suo computer portatile aveva trascritto frasi di altri artisti, citazioni che gli erano piaciute. Noi gli facevamo una domanda, e lui diceva “aspetta”, apriva il documento e cercava finché non trovava qualcosa che funzionasse. Il gioco era trovare una frase che funzionasse rispetto alla domanda, ma che allo stesso tempo fosse completamente strampalata. Fino a quel momento pressoché tutte le interviste di Maurizio erano fatte con questo taglia e incolla. Alla fine di quell’incontro mi ha detto: “Domani devo fare un’intervista con Rai 3. La vuoi fare tu?”, e io gli ho risposto: “Si va bene. Ma cosa vuol dire falla tu?”. E lui, “ma sì, tu sei bravo. Falla tu”. A quel punto ha dato al giornalista il mio numero di telefono e ho parlato al suo posto. A mia volta anche io rubavo citazioni. Era un periodo in cui mi interessavo a Carmelo Bene, quindi prendevo frasi sue, di De Dominicis e altri. Il giorno dopo Maurizio mi ha chiamato per dirmi “ti ho sentito, bellissima, benissimo!”. All’epoca stava lavorando a una monografia della Phaidon, e mi ha chiesto: “Vogliono degli scritti, li puoi scrivere tu? Lavoriamo insieme, ma li scrivi tu”. E così è iniziato quel rapporto di amicizia e di gioco, per cui in tutti i casi in cui era richiesta la sua voce o la sua interpretazione, in realtà parlavo o scrivevo io.
LL: Ma perché lo facevi?
MG: All’inizio era un gioco. Ma c’erano altri elementi. Maurizio stava diventando il più famoso artista italiano, quindi mi piaceva l’idea di conoscerlo, di lavorarci insieme, ma non per fame di celebrità. L’aspetto che mi interessava era vedere il suo lavoro insieme a lui, dall’interno. Maurizio è anche molto generoso nel contraccambiare le relazioni e nell’amicizia, quindi a questa vicinanza corrispondeva una serie di accessi ad altre persone, ad altre conoscenze.
LL: Uno scambio di vantaggi reciproco?
MG: Un rapporto simbiotico. E poi mi pagava e mi aiutava: quando mi sono trasferito a New York mi ha aiutato moltissimo. All’epoca lui aveva 38 anni e io 25. Oltre all’aspetto dello scambio delle reciproche conoscenze, che se vuoi era molto più vantaggioso per me che per lui, c’era un aspetto teorico importante che mi interessava, perché questa nostra relazione implicava una trasformazione della figura del critico come portavoce dell’artista. Da una parte mi sembrava che in quel periodo ci fosse una professionalizzazione del critico sempre più sterile, ridotto ormai a professore che deve dare i voti agli artisti. E dall’altra c’era la figura del curatore che organizza le mostre ma ha un ruolo professionale rispetto all’artista. A me pareva che non esistesse più l’idea di critico come compagno di strada dell’artista, come portavoce. Che insomma era il modello di Breton, di Baudelaire, di Tristan Tzara. L’idea cioè di essere la voce dell’artista: in quel caso io ero proprio la voce, in carne e ossa. Mi piaceva l’idea di essere il detentore del significato dell’opera, anche se il mio ruolo era di travisarne il senso. E infine c’era un aspetto di corruzione del mio ruolo che mi affascinava, perché di solito il critico si traveste da giudice oggettivo, distante, distaccato. Invece io ero sfacciatamente parziale, dentro l’opera dell’artista. Mi sembrava di illustrare l’opera di Maurizio in modo più efficace di cento saggi, di visualizzare quel conflitto del parassitismo di cui abbiamo parlato. E poi ora Maurizio è molto migliorato: prima aveva davvero grandi difficoltà a parlare in pubblico. E, per ritornare al tema dei media, bisogna dire che Cattelan ha ben presente che la “morte da media” si ha proprio quando i media credono di aver esaurito una storia, di averla capita e consumata. Quando si arriva alla verità, la notizia muore. E finché ero io a parlare, alla verità non si poteva arrivare.
LL: Infatti Cattelan ha sempre cercato di alimentare un certo mistero intorno a chi è e a cosa fa. Parli al passato perché ora ha abbandonato questa strategia? Trovo che alla decisione di “andare in pensione” sia corrisposto un cambio di rotta anche in questo atteggiamento, cioè ha iniziato ad aprirsi di più ai media, a rilasciare interviste in prima persona. Cosa ne pensi?
MG: Parlo al passato perché io personalmente non lo faccio più da anni. Le cose sono cambiate quando abbiamo lavorato insieme alla Biennale di Berlino. Lavoravamo come colleghi ed era più difficile per me. Parlavo al suo posto in qualità di curatore, ma mi era più difficile parlare come artista, anche per i miei impegni. Quindi abbiamo smesso. Già dal 2001 la strategia era cambiata. La chiamavamo “la fase della nuova sincerità”, perché, se prima c’era questa idea che le risposte dovessero essere chiare e ambigue allo stesso tempo, dopo qualche anno abbiamo deciso che le interviste dovessero sembrare più intime. In realtà erano completamente inventate, più assurde delle precedenti.
LL: Cosa c’era di inventato?
MG: Una volta alla Biennale di Venezia del 2003 mi ricordo che ho parlato per una televisione di fronte a una scultura di Richard Serra, fingendomi Maurizio e commentandola come se fosse mia. La fase della nuova sincerità corrispondeva anche a un cambio di tono nel suo lavoro che stava prendendo una direzione più secca, toccava argomenti più complessi. Tra il 2004 e il 2006 le mie interviste si sono fatte sempre più rare, e dal 2006 abbiamo interrotto. A ogni modo sono state realizzate delle interviste al suo posto da altri o Maurizio stesso ne ha fatte alcune chiedendo all’artista di farsi le domande e di darsi le risposte. Per lui è sempre importante insinuare il dubbio che siano veramente fatte da lui. Di fatto, se le leggi tutte di seguito ti rendi conto che non possono essere state fatte da lui perché sono completamente schizofreniche, diverse l’una dall’altra. Adesso sì, è vero, parla di più in pubblico. Ma molte volte mi chiedo se sia davvero lui. Per esempio l’intervista con Catherine Grenier secondo me è un po’ troppo chiara e precisa per essere di Maurizio. Secondo me l’ha scritta lei con il suo permesso. Ma ritornando a Cattelan come artista popolare, in fondo Maurizio è un cantastorie, anche le sue sculture sono racconti.
LL: Nel senso che passano di bocca in bocca proprio come le leggende popolari, e così facendo vengono modificate di volta in volta?
MG: L’interpretazione della sua carriera per interposta persona — con me che mi fingo lui — è semplicemente un’altra forma di narrazione. La sua biografia si fa romanzo: il suo modo personale di relazionarsi all’opera è una storia raccontata da una polifonia di voci.
LL: Insomma, tu sostieni che non è ancora il Maurizio Cattelan originale al cento per cento quello che esce allo scoperto nelle ultime interviste?
MG: Sì, conoscendolo, è ciò che penso. Magari quella alla Grenier è la sua ultima vera intervista, ma non credo. Anche la questione del pensionamento è la classica esca. Maurizio non andrà mai in pensione. Forse smette di lavorare da artista, ma ha sempre affermato di non esserlo, quindi di fatto non smette nulla. Ora, non lo sto dicendo perché penso che sia un cinico, un bastardo e che ha costruito tutto a tavolino. Piuttosto questo è il packaging di una bellissima storia, che diventa ancora più bella perché è “la mia ultima mostra”. È la sintesi della retrospettiva che la trasforma essa stessa in un’opera, creando così l’evento di Cattelan che va in pensione. Maurizio ha anche un grande rispetto dei media, quindi andrà davvero in pensione, anche se è una finzione che deve diventare realtà dopo che è diventata notizia. Probabilmente se lui mi sentisse sminuirebbe questa importanza dei media ma non quella della comunicazione. È un aspetto che gli sta molto a cuore. Infatti è un artista che ha creato le riviste Permanent Food e Toilet Paper come strumenti personali di promozione, veri e propri organi di propaganda. Una delle sue primissime opere è una serigrafia con scritto: “Stasera alle ore 10.00 avverrà un grossissimo furto che sconvolgerà tutti, avverrà in via Mattuiani. Provate a prenderci”. È semplicemente la comunicazione di un evento che non si sa cosa sia ma che nel momento in cui viene dichiarato e comunicato coglie l’attenzione di tutti e diventa vero.
LL: Quindi si concretizza come opera nel momento in cui c’è la reazione del pubblico?
MG: Sì. E allo stesso modo quando Maurizio dichiara “da domani sarò un pensionato” non sta facendo nulla di diverso dall’affermare “Stasera ci sarà un evento straordinario”, ma che ci vada davvero o no non conta.
LL: È un modo per mantenere ancora gli occhi puntati su di lui?
MG: Un’informazione si trasforma in evento.
LL: Per concludere, allora è corretto dire che per Cattelan il rapporto con i media è vitale?
MG: Sì. Salvo poi osservare che fa più notizia dire che non è così. Se lo dici, uccidi l’opera e l’opera di Maurizio per esistere deve negare la sua spiegazione. Per fare notizia ormai bisognerebbe inviare il seguente comunicato stampa: “Rivelazione shock: Cattelan non ha mai guardato la televisione e non ha mai letto un giornale. Ignora l’esistenza dei media”.