Tra le lune di Saabali, nel sistema stellare di Anubia, ce n’è una che si distingue per la particolare pigmentazione della sua superficie. Si tratta di Amon, la luna verde, luogo di culto per le figlie e i figli della diaspora che, forzati in tempi reconditi ad abbandonare il Pianeta Madre (la Terra), si ritrovano a percorrere lo spazio cosmico alla ricerca di qualche traccia del passato perduto. All’interno di Amon, da qualche parte tra il mantello e il nucleo lunare, si cela l’eremo del guardiano dell’eredità culturale terrestre, custode del mito delle origini, depositario delle storie e dei saperi ancestrali del mondo. Quando la Libellula cibernetica di Ewok si posa sulla luna verde, l’eremita vi si fa incontro con indosso un’enorme maschera a forma d’uovo, deciso a tramandare le sue memorie e i retaggi delle antiche civiltà terrestri.
Di questo incontro si narra in un racconto di fantascienza scritto da Isabella Costabile nel 20161, anno in cui l’artista inizia a concepire il gruppo scultoreo di cui fanno parte High Priestess (2016) e Hermit Moon (2017). Entrando nel Palazzo delle Esposizioni di Roma in occasione della XVII Quadriennale e dirigendosi verso la sala che i lavori di Costabile condividono con le serie fotografiche di Lisetta Carmi, si ha come l’impressione di andare verso un simile incontro. Già in lontananza, si scorge la silhouette di una figura dal capo insolitamente grande rispetto al resto del corpo: si tratta di Hermit Moon, maschera a forma d’uovo simile a quella indossata dall’eremita di Amon.
È l’invito a un viaggio verso mondi e tempi lontani, nel passato o nel futuro, guidati da un intreccio di rituali, speculazioni pseudoscientifiche, archetipi cosmogonici, enigmistica, mitologia e figure ibride o mutanti che il lavoro di Isabella Costabile convoca e mette in relazione.
In principio c’è l’uovo, una forma semplice, geometria organica dalla potente carica simbolica evocata in Hermit Moon o Il confidente della natura (2018) nella struttura quanto nella materia. Quale archetipo cosmogonico per eccellenza, l’uovo è posto al centro di diversi complessi mitico-rituali e appare in numerosi miti delle origini tramandati dalle civiltà antiche, così come in alcune teorie della ricerca astrofisica occidentale moderna. Situato alle origini del cosmo, l’uovo è collocato al crocevia di una rete di fantasiose relazioni multi-specie – unioni tra cigni, esseri umani, divinità e mostri marini, fecondazioni ad opera di correnti d’acqua o soffi di vento, conciliaboli fantastici di tartarughe, serpenti, chimere e draghi, e via dicendo – o immaginato a galleggiare nel brodo primordiale, oscuro e inconoscibile, pronto ad esplodere per dare luogo, forma e vita all’universo.
Elemento arcaico, quanto futuristico, l’uovo rappresenta un topos ricorrente anche nella narrativa fantascientifica, alla quale la riflessione artistica di Costabile si ispira per la capacità di questo genere letterario di conciliare temporalità e spazialità distanti, dando corpo a mo(n)di possibili.
In Bloodchild, di Octavia E. Butler, la specie dei Tlic depone due tipi di uova: le uova fertili e le uova sterili2. Le uova sterili sono offerte ai Terrestri, con cui i Tlic condividono il loro pianeta, per assicurare loro una longevità straordinaria, indice di una mutazione della specie in atto. Le uova fertili, invece, sono impiantate nei corpi dei Terrestri, i quali si prestano al pericoloso legame simbiotico, complici nell’ibridazione del meccanismo procreativo, per garantire la sopravvivenza di entrambe le specie. Ambedue le tipologie inducono processi metamorfici e straniamento, un divenire alieno/strano o un alieno/strano divenire che si direbbe una forma di xenogenesi butleriana ante litteram3. Le uova, qui, rappresentano il sigillo di un patto d’interdipendenza multi-specie a garanzia della continuità della vita, dove l’altro da sé, il diverso, il mostruoso, l’alieno non sono forme di vita da temere o combattere, quanto piuttosto specie compagne con cui stringere alleanze e insieme alle quali immaginare futuri possibili4. Una filosofia che l’immaginario fantastico e le creature ibride di Costabile, nella loro intimità aliena, sposano e comunicano.
Ma torniamo sul pianeta Terra e facciamo un salto indietro di qualche millennio. In diversi modelli cosmogonici antichi, dicevamo, l’uovo può essere associato a una straordinaria varietà di esseri. Nella tradizione egizia, per esempio, si accompagna alla figura mitologica della fenice. Circa ogni cinquecento anni, la fenice prende fuoco e si consuma in un inevitabile processo di autocombustione. Prima che ciò avvenga, costruisce un nido a forma d’uovo all’interno del quale, dalle sue ceneri, andrà a generarsi un nuovo uovo; alla schiusa di questo, una nuova fenice, e così via. Il binomio uovo-fenice, dunque, non si limita a simboleggiare l’origine, la fertilità e l’evento della nascita, ma rimanda alla ripetizione continua di questo evento e quindi all’idea di rinascita (una strizzata d’occhio alle fotografie di Lisetta Carmi5). Tale associazione rinvia all’infinita ciclicità della vita, dove si perde proverbialmente il conto di chi/cosa genera chi/cosa.
Il legame mitologico tra l’uovo e il serpente produce un simile senso di vertigine. Il serpente si avvolge sette volte attorno all’uovo di Eurinome, questo si schiude e ne esce il creato. Oppure, il serpente da solo si morde la coda e gira in cerchio, diventando simbolo di rigenerazione perenne. Tale significazione è notoriamente associata al rettile in ragione del fenomeno della muta, ovvero della capacità di cambiare pelle in un processo di continuo rinnovamento e simbolica rinascita. Frustone, realizzato nel 2018, parte da lì: da una pelle di hierophis viridiflavus o biacco ritrovata sul portico di casa. Il titolo dell’opera rimanda alla denominazione vernacolare attribuita al biacco in alcune parti del centro Italia, tra cui la Maremma – terra di sante, butteri e briganti, dove Costabile abita e a cui fa riferimento in maniera ancora più esplicita nel titolo di un lavoro dello stesso gruppo, Santa Maremma (2018). La composizione materica di Frustone, integrando la pelle di serpente ritrovata allo stesso modo in cui Hermit Moon integra gusci d’uova, fa pensare a uno scongiuro o alla costruzione di un amuleto che assimili la materia organica della creatura che si voglia invocare o a cui si desideri chiedere protezione.
E il riferimento non è generico: l’opera incorpora proprio quella parte del serpente che è traccia e indizio della sua capacità di rinascere in un ciclo continuo, trasformazione costante. Il serpente, come l’uovo, è metamorfosi.
Anche la maschera è metamorfosi – una considerazione che ci riporta tra le lune di Saabali, convocando nuovamente la figura dell’eremita della luna e la sua maschera, elemento presente nel lavoro di Costabile quanto nelle più svariate tradizioni culturali di tutti i tempi. Al di là del meccanismo di spettacolarizzazione e mercificazione all’opera nelle sale dei musei etnografici occidentali, le maschere rappresentano storicamente i luoghi dove politica, estetica, rito e dramma s’incontrano e s’intrecciano. Attraverso i secoli, sono state indossate in contesti sacri e profani, nell’ambito di pratiche spirituali, cerimoniali, rituali o teatrali, così come in pratiche politiche e socioculturali6. La maschera è innanzitutto una tecnologia o dispositivo di travestimento e dissimulazione. Come strumento di occultamento o performante strato di opacità, essa rappresenta una forma di resistenza, anche nel presente: resistenza a regimi di controllo e disciplina; resistenza alla categorizzazione di un corpo in base a pregiudizi di genere, razza o classe; resistenza alla tradizionale assegnazione di ruoli prestabiliti all’interno di un qualsivoglia ordine o gerarchia.
La maschera è anche mezzo di sovversione, quanto tecnica di sopravvivenza. È un invito a immaginare le cose altrimenti: l’invito che ci rivolge Sun Ra, jazzista venuto da Saturno per armonizzare la condizione discordante o disaccordata del pianeta Terra e sperimentare, assieme ai musicisti dell’Arkestra, nuove forme di vita. A tale scopo, Sun Ra chiede ai compagni musicisti di non suonare ciò che sanno, bensì ciò che non sanno, in un’inedita ricerca di conoscenza. L’improvvisazione è metodo di studio e principale tecnica di apprendimento7. Ma anche l’improvvisazione richiede esercizio. Così, Sun Ra e l’Arkestra non fanno altro che esercitarsi, dalla mattina alla sera, in preparazione del mondo che verrà. Quella che Sun Ra e l’Arkestra sviluppano, anticipando il movimento culturale afrofuturista, non è unicamente una pratica musicale: è una pratica mitopoietica, supportata tanto dallo spinto sperimentalismo musicale che la contraddistingue, quanto da una formidabile performatività mitica, da teorie cosmologiche e dimensioni spazio-temporali speculative sospese tra un tempo antico e un futuro remoto, dove proiettare l’immaginario della diaspora africana emancipandolo dalle dinamiche oppressive e marginalizzanti della storia moderna.
Similmente, la pratica di Costabile si sforza d’inventare possibili realtà e forme di vita alternative, non con intento evasivo ma piuttosto per indurre riflessioni e scambi che possano alterare la realtà stessa.
Dall’incontro col pensiero, la pratica, la musica e la sensibilità afrofuturista, nascono lavori come High Priestess o Santa Maremma, ispirati dalla ricerca estetica, iconografica e narratologica di produttori e produttrici culturali quali Octavia E. Butler e lo stesso Sun Ra, quanto dalla necessità di appropriarsi e riconfigurare le politiche identitarie a cui Isabella stessa si trova automaticamente ascritta in quanto donna italo-giamaicana. È proprio per sfuggire ad automatismi, stereotipi e categorizzazioni imposte che Sun Ra indossa la sua maschera – gesto metaforico quanto letterario8. La maschera è trasfigurazione: rende i corpi adorni o resistenti, amplifica le voci. La maschera è depersonalizzazione: sospende il meccanismo di riconoscimento e identificazione, complica il processo conoscitivo, provoca un senso di de-familiarizzazione e straniamento.
Il concetto di straniamento, nell’accezione brechtiana del termine, ritorna nella pratica più recente di Costabile sottoforma di tecnica o principio compositivo. Lavori scultorei come quelli del gruppo degli Untitled (2019- 2020) si presentano come una serie di architetture organiche costituite da materiali di recupero e oggetti del quotidiano provenienti dal domestico. In queste opere, economia ed ecologia si mescolano e si confondono, facendo perno attorno alla radice comune οἶκος, la casa – cui Costabile già allude in produzioni precedenti, come la stessa Santa Maremma o Al pascolo (2018). Alla base di queste sculture vi è un procedimento combinatorio associativo che richiama il prototipo del gioco in versi caratteristico dell’enigmistica classica: l’indovinello. Come risaputo, l’indovinello prevede una composizione detta a doppio soggetto, ovvero una struttura poetica che invita a indovinare quale oggetto si celi dietro i suoi versi, presentando un significato reale nascosto dietro un significato apparente. In altri termini, l’indovinello mette in discussione la descrizione convenzionale degli oggetti e del loro uso comune, smantellando ciò che è normalmente (e dunque automaticamente) accettato per indurre un cambiamento radicale nella percezione delle cose e del loro ordine. In quanto tale, l’indovinello è una maschera del linguaggio. Questa pratica narrativa e metaforica, sottesa alle sculture dell’artista, è rivolta a sfidare gli automatismi del linguaggio e del pensiero per costruire relazioni non funzionali, bensì combinatorie e affettive tra gli oggetti. Nel suo lavoro, l’indovinello è metodologia, è protocollo.
Termite hills also share my texture. I’m shaped in many ways and put in fire, becoming both fragile and solid. I can be stacked like units, to create space and protection for living. My leftovers are found, in the dusty areas where constructions rise. Very often, I become a container filled with soil where roots are held firmly in place. I lose balance on windy days and scatter around the garden. If my pieces were irregularly fit together, the structure would seem incomplete in the way ancient ruins do. What am I?9