Si chiama “Atto Unico” la mostra a carattere monumentale ospitata dalla Fondazione Arnaldo Pomodoro di Milano di Jannis Kounellis, a cura di Bruno Corà. Un titolo già utilizzato dall’artista nell’esposizione romana del 2002 che, in sintonia con il passato allora come oggi, ne sancisce il legame con il teatro, con il dramma: azione e rappresentazione della vita attraverso l’arte che non consente repliche.
Un’arte, quella di Kounellis che, nata nella stagione dell’Arte Povera ne ha subìto l’incantesimo, eternamente attratta dalla rielaborazione dello scarto, dal frammento, dall’adozione di materiali poveri (ferro, legno, iuta, pietra), residui della grande macchina industriale, o espressione del tempo che macina tutto, a ricordare la priorità della natura, della cultura su tutto ciò che è pura ripetizione, assenza di creatività.
In questa occasione la navata centrale della Fondazione è scandita da vertiginosi pilastri a vite che raggiungono la sommità, presenze forti eppure integrate come se fossero lì da sempre, quasi un’eredità della ex fabbrica di turbine Riva e Calzoni. Ritorna l’immagine del labirinto, emblema della creazione, dell’ossessione/prigionia insita nel fare arte, il fulcro attorno a cui gira tutta la composizione della mostra: circa venti installazioni attraversate da un’analoga tensione narrativa. Nell’articolato perimetro si incontrano le sue note carboniere, sacchi di iuta, vestiti, sedie e campane, idee e materie di un repertorio linguistico che racconta temi e soggetti della sua ricerca. Lamiere di ferro formano alte pareti, una montagna di pietre rinforza il lato più debole della struttura: un’altra porta sbarrata che si aggiunge alle tante immagini di chiusura utilizzate nel tempo da Kounellis: “Tu sei dentro e la fortezza è pari all’universo”, scriveva Borges.
Nel dedalo compare anche un grande affresco a macchie, sembrerebbe una firma che l’artista ha lasciato sul pavimento: l’inspiegabile punto di avvio che genera l’opera sospesa tra rigore, casualità e immaginazione. Rispetto alla retrospettiva conclusasi di recente al MADRE di Napoli, in questa mostra non c’è accenno a una cronologia, a un prima e a un dopo, al centro c’è l’artista e la totale fiducia nella sua esperienza. Un’eredità vitalistica che si concretizza nelle grandi vele aperte, consumate e saldamente ancorate al suolo da corde, immagine di un’utopia dura a morire, del viaggio come condizione esistenziale.
Lastre di ferro da cui pendono sacchi di iuta pieni di carbone o di spezie, frammenti di statue classiche, lumini a gas, libri, ganci, carne, la mostra è una puntuale sintesi del linguaggio sincretico dell’artista, un’esercitazione su grande scala (urbana si direbbe) che mira a ricomporre un universo complesso in cui c’è spazio per l’assenza, per la memoria, per i sogni frantumati e per la speranza.
A riprendere la composizione della mostra di Jannis Kounellis è Ermanno Olmi, alle origini il documentarista dell’Enel, il ritrattista del mondo della fabbrica, chiamato questa volta a filmare i movimenti dell’artista all’interno della ex fabbrica, quasi a testimoniare l’avvenuta trasformazione del paesaggio industriale in paesaggio culturale, di cui Kounellis è felice interprete.