La Biennale del Whitney del 2006 includeva un film di Jordan Wolfson con un uomo in smoking che “parla” la lingua dei segni. Questo personaggio sta traducendo il discorso finale del film di satira nazista del 1940 di Charlie Chaplin, Il Grande Dittatore. L’intero discorso, che funge anche da titolo — lungo una pagina — per il lavoro di Wolfson è una sorta di messaggio poetico e utopico rivolto alla specie umana, in cui Chaplin augura la pace nel mondo e l’amore tra gli esseri umani. Questo video potrebbe essere visto come un atto di scetticismo nei confronti del linguaggio e della possibilità di comunicazione, e allo stesso tempo un estremo atto di fiducia nel profondo bisogno di utopie e sogni da parte dell’umanità. Tutti i lavori di Jordan Wolfson sembrano oscillare tra queste due differenti dimensioni: un’intelligenza fredda e spesso ironica e un approccio romantico e melanconico verso il tempo e la vita. Per esempio, un altro lavoro in mostra, Untitled (Frank Painting Co. Inc.), si basa sul tempo e sulla concezione della perdita: Wolfson scoprì casualmente che Jack Frank, il novantaquattrenne proprietario del suo edificio a Brooklyn, possedeva la compagnia che tinteggiò i muri del Whitney quando il nuovo edificio fu aperto nel 1966. Così gli chiese di ritinteggiare la prima mano di una delle pareti originali dell’edificio (dopo che numerose mani di pittura erano state tolte). Dopo che Frank ebbe pitturato il muro, dei tecnici arrivarono a dipingere sopra la prima mano per perfezionare l’opera. L’etichetta dell’opera è stata posta sulla parete di fronte. Essenzialmente, l’artista ha chiesto al vecchio proprietario di celebrare un rituale collegato all’esistenza e alla memoria. In Jiem-No-Pedti (2005) dipinse la galleria T293 di Napoli dal pavimento al soffitto con della pittura bianca, riempiendo lo spazio con la registrazione di sua madre che cercava di suonare al pianoforte la Gymnopédie N. 1 di Erik Satie: giorno dopo giorno, la depressione contemplativa di questa atmosfera sospesa era intaccata solo dalle impronte del pubblico, segnando gradualmente il pavimento bianco e donando un senso di bellezza e perfezione irraggiungibile. Una simile ambientazione è raggiunta nell’opera Nostalgia Is Fear (2004), dove una macchina per la neve artificiale veniva attivata a caso mentre lo spettatore stava davanti alla luce dei fari di una Porche bianca. Ma questo aspetto romantico e melanconico raffigura solo un lato della sua personalità: l’altra parte è formata dal suo scetticismo e dal suo senso dell’umorismo. In un certo senso, Wolfson è una strana combinazione tra un poeta romantico come John Keats e una personalità sarcastica, egocentrica e ossessiva come quella di Woody Allen. La sua natura pensierosa ed estremamente scettica lo portano a mettere in dubbio non solo l’idea di melanconia ma addirittura la propria pratica e il proprio lavoro. Nel video di 4 minuti intitolato The Crisis (2004), Wolfson gioca con se stesso mentre visita una cattedrale e discute i grandi lavori d’arte contemporanea che ha visto nella sua vita, riflettendo sulla propria abilità nel produrre dei lavori di una potenza simile. In questa “crisi” molto personale, un mix del suo pessimismo melanconico e del suo irriducibile senso dell’umorismo ci mostrano le due caratteristiche principali dell’approccio di Jordan Wolfson.