“Una terza tigre cercheremo. Questa
sarà come le altre una forma
del mio sogno, un sistema di parole
umane e non la tigre vertebrata
che, al di là delle mitologie,
calpesta la terra. Lo so bene, ma qualcosa
mi impone quest’avventura indefinita,
insensata e antica, e persevero
nel cercare lungo il tempo della sera
l’altra tigre, quella che non è nei versi”.
(Jeorge Louis Borges, L’altra tigre)
Lorenzo Benedetti: Il titolo della mostra “La Terza Tigre” proviene da una poesia di Jeorge Luis Borges intitolata L’altra tigre. La tigre è una metafora del tentativo di captare l’immaginazione in continuo movimento. Mi interessava usare questa metafora per indagare i confini tra i luoghi espositivi e le relazioni che si stabiliscono tra di loro. “Camere”, il ciclo di mostre a che si svolge a RAM radioartemobile rappresenta un’occasione speciale per evidenziare i dialoghi tra artisti che si confrontano in tre spazi simili. Ci sono alcune analogie interessanti che ho voluto sottolineare: la dimensione cromatica, quasi monocroma degli spazi è relazionata alla dimensione del sogno che diventa il filo rosso tra le opere, la dissoluzione del confine tra realtà e immaginazione e la presenza del testo nei tre ambienti, come nella stanza di Mark Manders dove la finestra è coperta da giornali totalmente inventati, incomprensibili, anche se apparentemente sembrano reali.
Mark Manders: Per me, il fatto di aver cominciato a fare questi giornali è dovuto a due ragioni: la prima è che non voglio avere la dimensione del “tempo” nel mio lavoro, voglio creare un solo grande attimo bloccato. In questo spazio ho ricoperto la finestra con i miei giornali per impedirne la vista dall’esterno. Per esempio, faccio lavori che sembrano di argilla bagnata, appena lavorata e non ancora secca. Se io usassi dei giornali veri per il mio lavoro si stabilirebbe automaticamente un legame con un posto e con un periodo specifico. È per questo che ho creato giornali inventati. La seconda ragione è che sono molto interessato al linguaggio. Il modo in cui uso il linguaggio nel mio lavoro è cercare di usare meno parole possibili, ma in questi giornali utilizzo tutto il vocabolario inglese, e ogni parola una sola volta.
LB: Le pubblicazioni hanno un ruolo importante. Come per Mark i giornali inventati sono parte della mostra, per Rossella Biscotti e Olaf Nicolai parte del loro lavoro esposto è una pubblicazione che i visitatori possono portar via. È la parte stampata, riprodotta dell’installazione che sfugge alle dinamiche dello spazio espositivo. Si tratta allo stesso tempo di un’opera d’arte e di una documentazione della mostra.
Olaf Nicolai: Non penso mai alle mie opere come capitoli chiusi. Essi consistono in elementi tra loro relazionati. Anche un testo può essere uno di questi elementi. Camera (After Poussin) è la prima installazione in cui uso un testo scritto da me medesimo incorporandolo nell’opera stessa. È la prima volta che impiego un testo scritto da me e non attingo a testi altrui. Normalmente invece considero le pubblicazioni come un’opera a parte con una logica propria. Esse continuano il lavoro in un modo totalmente differente. Le pubblicazioni hanno una possibilità diversa rispetto all’esperienza di camminare intorno a un’installazione. Nelle mie pubblicazioni provo a continuare la logica della mia opera in un campo differente.
LB: Se il contenuto del testo — tra l’altro impaginato da Roma Publications — è il diario dei sogni, in un certo senso ti riferisci a te stesso.
ON: È un diario di sogni, ma si tratta sempre di un sogno ricordato e tradotto in qualcos’altro che in un certo modo può essere seguito. Una volta che si inizia a verbalizzare ciò che hai sognato, sei già nel processo di traduzione. Anche la logica del sogno stesso si basa su traduzioni e citazioni pure. Compressione, fusione, dislocamento, spostamento — tutti questi termini analitici riflettono ciò. Per esempio, quando si sogna un determinato paesaggio, sai che ci sei già stato, ma contemporaneamente sai anche che è un richiamo a un paesaggio di sogni precedenti e non a un paesaggio in cui sei stato realmente. C’è una geografia dei sogni, con paesaggi che non necessariamente esistono nel mondo fisico. Eppure si ha familiarità con queste ambientazioni, con questi luoghi. Può accadere che molti anni dopo sogni un luogo che ricordi vividamente ma non ha alcun riferimento a un paesaggio in cui sei stato. Esistono dei loop tra sogni che lentamente creano il loro universo. Ma anche per me la logica dei sogni è fortemente legata al modo in cui si percepisce e al modo in cui ognuno fa da mediatore. Ci sono sogni che funzionano come film, con tagli e close up. Una volta ho fatto un sogno che comprendeva addirittura i credits. Poi ci sono sogni che sono certamente astratti. Trovo interessante affrontare la logica dei sogni dal punto di vista tecnico, più che con la psicologia. Sono cresciuto leggendo molto. Mi chiedo se il mio sogno segua una logica diversa da quella di chi è cresciuto guardando molti film.
LB: L’idea che esista una logica dei sogni è molto interessante anche in relazione alla proiezione di Yellow Film di Rossella Biscotti. In quest’opera c’è un potente dialogo tra realtà e immaginazione. Qualcosa che ricorda una memoria nascosta dove non ci sono confini certi tra il ricordo e un paesaggio di finzione.
Rossella Biscotti: Ho pensato all’ultimo spazio, il momento in cui i sogni emergono. Il sogno però è fatto anche di ricordi. A volte è la memoria che emerge, altre volte è solo un sogno. Ero alla ricerca di qualcosa che non fosse una narrazione. Non c’era niente che in modo consapevole poteva essere descritto come la memoria di qualcuno. Non volevo avere qualcosa che era già una sorta di autoanalisi o l’analisi dei propri sogni e ricordi in cui la costruzione stessa delle frasi sarebbe già stata fissata. Ecco perché ho iniziato a cercare terapie capaci di mettere le persone in una sorta di stato d’animo in cui non esiste un in between del pensiero, ovvero uno stato in cui la persona parla, racconta un’esperienza che è allo stesso tempo sogno e ricordo. Ed è per questo che ho iniziato a interessarmi delle storie di questi pazienti che alla fine degli anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta sono stati visitati da un famoso psicoanalista olandese, il Prof. Bastiaans, che li sottoponeva all’effetto del Pentothal somministrato in quantità enormi. Questi pazienti andavano a dormire per essere poi in seguito interrogati molto dolcemente dal medico. L’esperimento consisteva nel tentativo di recuperare la memoria della singole persone, come per esempio quella di un uomo relativa alle sue esperienze durante la Seconda Guerra Mondiale. C’è una sorta di memoria collettiva che si presenta, e quindi in termini di psicoanalisi quello che emerge non è mai totalmente privato. Per me si è trattato anche di un confronto con la storia — privata e collettiva — una sorta di delirio in cui le cose emergono e le puoi seguire. Almeno in parte perché qualcosa rimane sempre frammentario, appare semplicemente come parole.
LB: Il concetto di paesaggio e di tempi diversificati è un elemento centrale nella mostra. Questo ci permette di usare lo spazio espositivo come uno strumento per sconfinare in dimensioni diverse e di avere un tempo dilatato. E questo, riferendoci a Borges, ci permette di creare mondi paralleli, che è una delle caratteristiche incredibili dell’arte.
MM: Quando lavoro mi piace essere un viaggiatore nel tempo. A volte faccio delle opere che avrebbero potute essere create 3000 anni fa. Per me è importante che abbiano l’aspetto di una cosa appena realizzata. È veramente come qualcosa che lascio alle spalle. Voglio creare un super-momento. È come se tu avessi una enciclopedia in cui manca una singola voce. Le mie opere sono come gelate nello stesso momento. Lavoro da venticinque anni, ma non c’è alcun progresso. Ho fatto molte opere, molte opere diverse, ma è come se fossero esistite da sempre.
ON: Quello che mi piace delle tue sculture è che ci si domanda come saranno terminate. Non sono ancora asciutte. Così tu colleghi l’oggetto nel tempo e tu lo connetti con il concetto di vita e di morte.
MM: La figura che espongo è molto fragile, non ha le braccia e una sola gamba. Se tu sei estremamente fragile tutto il mondo diventa nemico. Ho voluto fare una figura totalmente concentrata su se stessa, una figura che non ha paura e non si preoccupa di tutto ciò che accade intorno. La cosa fantastica è che puoi usare diverse sculture facendole diventare un linguaggio unico, in questo caso qui a Roma i giornali, la figura, la sedia e il pavimento lavorano insieme come linguaggio scultoreo.
LB: Il titolo della tua installazione Camera (After Poussin) fa riferimento a concetti come il tempo e il linguaggio, un processo di identificazione tra astratto e figurativo, realtà e immaginazione.
ON: Anche in questo caso si ha a che fare con il testo. C’è un dipinto di Poussin, che non è tra i suoi più famosi. Non ho idea del perché stavo sognando questo dipinto. L’ho visto una volta e non ricordo di avergli prestato molta attenzione, ma evidentemente l’ho fatto. Il dipinto mostra tre viaggiatori in un paesaggio. Non sai se ci sono davvero tre persone nel paesaggio o se tratta della sinossi del movimento di un solo viaggiatore, cioè se davanti agli occhi hai realmente tre personaggi in un paesaggio o se si tratta di una singola persona in movimento che il pittore fissa in tre momenti diversi. Mi piace questo tipo di in between tra spazio e tempo. La pittura per me non è riprodurre l’immagine che hai di fronte. I dipinti di Poussin sono splendidi esempi di tutto ciò. Sono pieni di astrazioni e di elementi formali che non hanno riferimenti realistici. Le forme e la luce sono molto precisi. È più come si trattasse di una luce in studio. Poi il cielo, che non ha nulla a che fare con il resto del paesaggio, è come un palcoscenico, una sorta di interno/esterno. Vedo dentro di me più di quanto veda fuori. È qualcosa di affascinante.
LB: In Yellow Film la pellicola è stata esposta alla luce per raggiungere un giallo monocromo. L’idea di esporre qualcosa come se stesse bruciando è una metafora che si lega a esporre i propri ricordi e in un certo modo si lega a quanto ha detto Olaf riguardo la dinamica tra l’interiore e l’esteriore.
RB: Per me era anche interessante vedere che la vita crea l’immagine ed era altrettanto interessante ottenere un’immagine semplicemente attraverso la luce. C’è stato un lungo processo prima di arrivare al giallo. Volevo veramente capire come si vede la realtà in una maniera diversa secondo la nostra psicologia o il nostro modo di pensare. Avevo guardato il film di Kieslowski A short story about killing. Quello che mi aveva impressionato era l’uso del filtro da parte dell’autore, una specie di filtro ocra adoperato lungo tutto il film. Sai immediatamente che quello che ti viene mostrato non è la realtà, ma una sorta di occhio interno, cioè quello che vede il protagonista, in giro per la City. Ho pensato che per il mio film avrei dovuto creare un’esposizione alla luce attraverso l’uso di un filtro.
LB: Una caratteristica dei tuoi progetti è di trovare delle situazioni molto specifiche, come l’autorizzazione di poter usare il materiale degli esperimenti sui dei pazienti. È un elemento che mostra un forte realismo nella tua opera.
RB: Come ho già detto, si tratta di una storia molto personale dell’uso della luce che evidenzia una condizione che è ancora privata, ancora nascosta. Amo molto i suoni di fondo e mi piace anche sentire le persone mentre dormono. Avverti realmente il respiro della persona. Lo spettatore si trova nella stessa condizione. Quando dormiamo siamo fragili, siamo esposti al mondo, come la scultura di Mark. Sei lì e stai sentendo e senti anche altre persone nello spazio. Senti in un certo senso la presenza della morte, una strana presenza.
ON: Mi piace questa attenzione su quegli aspetti che non riguardano solo la razionalizzazione delle informazioni, ma anche l’indirizzamento delle opere d’arte che hanno a che fare con una costellazione. Personalmente l’aspetto più interessante della mostra è stata la connessione formale tra le tre stanze. Se confrontiamo solo le forme abbiamo già una connessione: il colore giallo, i giornali, il rivestimento dei pavimenti, tutti elementi che creano un’altra logica di riflessione, una logica tra le opere a livello formale. Naturalmente si può parlare di riflessione riguardo le opere d’arte. Io preferisco usare il termine flessione. Flessione indica in una forma la posizione della forma all’interno della rete. È il senso pieno, ma non il senso stesso.
Per esempio quando Mark prende la decisione di utilizzare il bronzo per una scultura che ha lo scopo di apparire come se fosse di argilla, si tratta di una flessione della forma. La forma racconta la storia di come si è formata ed è più ricca di un riflesso di essa. È tutto lì. Vedo questo come un bel contributo alle indagini sulla vita delle forme. Questo è ciò di cui parla il mio lavoro.