Mi è capitato di recente di leggere alcuni romanzi che parlano d’arte e che, naturalmente, mi hanno portato a fare alcune considerazioni sull’arte. Sempre più spesso mi imbatto in letture e ascolti che mi inducono a interessarmi d’arte di seconda mano, tramite una trasversalità, una distanza attiva.
In La carta e il territorio di Michel Houellebecq (Bompiani, Milano, 2010) si legge: “Jeff Koons si alzava dalla sua sedia, le braccia protese in uno slancio d’entusiasmo: seduto di fronte a lui su un divano di pelle bianca parzialmente ricoperto di un tessuto di seta, un po’ incurvato, Damien Hirst sembrava sul punto di formulare un’obiezione. […] Damien Hirst e Jeff Koons si spartiscono il mercato dell’arte. Nella classifica di Artprice delle più grosse fortune artistiche, Koons figurava al secondo posto nel mondo; da qualche tempo Hirst, di dieci anni più giovane, gli aveva soffiato il primo posto. […] Il valore commerciale della sofferenza e della morte era diventato superiore a quello del piacere e del sesso […] ed era probabilmente per la stessa ragione che Damien Hirst, alcuni anni prima, aveva sottratto a Jeff Koons il suo posto di numero uno mondiale sul mercato dell’arte”. Ecco una riflessione precisa, più di tanta critica d’arte, me compreso, sul perché dell’arte di Hirst, dove il successo economico è solo conseguente al fatto che l’arte parla delle ragioni profonde della vita.
“Si alzò per andare a girare il dipinto dalla parte del telaio: settecentocinquantamila euro […] pensò. Non aveva alcun senso. Nemmeno Picasso aveva senso; ancora meno forse, per quanto si possa stabilire una graduatoria nella mancanza di senso.”
Ma il senso di sopra allora? “È curioso […] si direbbe un Pollock, ma un Pollock che avesse lavorato quasi in monocromo. Del resto gli è capitato, ma non spesso… sa … non è che un’imitazione piuttosto mediocre di Pollock. Ci sono le forme, le sgocciolature, ma l’insieme è disposto meccanicamente, non c’è nessuna forza, nessuno slancio vitale”.
Già la vita dell’arte è vita della vita. Insomma la grande letteratura prende sul serio l’arte, l’arte dei nostri giorni che diviene protagonista anche con Don De Lillo di Punto Omega dove si legge e si dispiega la teoria della vita vera come: “Quando fece per imboccare l’uscita lo avvicinai, gli ricordai del nostro incontro precedente, usai un po’ di maternese e poi lo spinsi gentilmente per tutto il sesto piano fino alla galleria dove c’era l’installazione dello Psycho rallentato. Rimanemmo in piedi al buio a guardare.[…] Nel tempo in cui Anthony Perkins impiegava a girare la testa ci fu come uno sciamare di idee riguardanti la scienza e la filosofia e una serie di altre cose imprecisate, o forse lui ci vedeva troppo dietro tutto questo. Ma vedere troppo era impossibile. Meno c’era da vedere più lui guardava intensamente, e più vedeva. Era questo il senso. Vedere quello che c’è, finalmente guardare e sapere che stai guardando, sentire il tempo che passa, essere sensibile a ciò che accade nei più piccoli registri del movimento”.Teoria del vedere e dello spettatore, altro centro motore dell’affermazione di valore dell’opera, come lo è il mercato per Houellebecq.
Continua De Lillo: “Quello che stava guardando sembrava cinema allo stato puro, tempo allo stato puro. L’orrore potente di quel vecchio film dalle atmosfere gotiche era incorporato nel tempo”.
Tempo fisico e tempo metafisico.
“Li guardò ancora per qualche istante, i due accademici, esperti di cinema, teoria del cinema, sintassi del cinema, metafisica del cinema, mentre Janet Leigh cominciava a spogliarsi per l’imminente doccia di sangue.[…] La stanchezza la sentiva nelle gambe, ore e giorni in piedi, il peso del corpo eretto. Ventiquattro ore. Chi potrebbe sopravvivere dal punto di vista fisico e non solo? Sarebbe stato in grado di uscire per strada dopo un giorno e una notte passati ininterrottamente a vivere in quel piano temporale così radicalmente diverso?”.
Fisica della resistenza e poi, ancora De Lillo: “Cominciò a pensare alla relazione fra una cosa e l’altra. Quel film e la pellicola originale avevano la stessa relazione che c’era fra la pellicola originale e l’esperienza vissuta realmente. Il film originale era finzione, quello era vero. […] La vita vera non si può ridurre a parole dette o scritte. Nessuno può farlo, mai. La vita vera si svolge quando siamo soli, quando pensiamo, persi nei ricordi trasognati eppure presenti a noi stessi, gli istanti submicroscopici. […] Non sarebbe riuscito a guardare il film vero, l’altro Psycho, mai più. Era quello il film vero. Lì vedeva tutto per la prima volta. Quante cose accadevano in un secondo, dopo sei giorni, dodici giorni, centododici, viste per la prima volta”. Così 24 Hour Psycho di Douglas Gordon riporta la finzione alla realtà, alla verità e alla vita vera, tra De Lillo e Houellebecq ecco il senso dell’arte vera e della vita vita. Tenete presente che le frasi citate dai due libri sono solo una minima parte di essi in cui si parla di arte: ecco quindi il perché del senso dell’arte di oggi, che fa parte della vita più di quanto non si è disposti a credere.