Appena ventenne, Antonio Mancini traveste da omicida un bambino napoletano – Luigiello, uno dei suoi “modellini” – e lo fa posare per Dopo il duello (1872), ora alla GAM di Torino. Nel dipinto si mescolano e sovrappongono numerosi livelli di finzione: il bambino è troppo piccolo per aver davvero partecipato a un duello. Escludendo la possibilità di una rappresentazione teatrale, unico soggetto possibile del dipinto è l’atto stesso del mettere in posa, dell’inscenare, del ricostruire nello spazio dello studio frammenti di una realtà finzionale che serva da stimolo e da sfida alla pratica pittorica. Il contesto narrativo soltanto abbozzato è appena sufficiente a giustificare, offrendo un pretesto, un pezzo di bravura: il sangue sullo straccio in primo piano, il rosso sul bianco.
In un piccolo olio su tavola, UNTITLED (2023), Leonardo Pellicanò trasporta il volto alienato di quel modellino in un nuovo spazio pittorico. Saltato lo straccio, saltata la stanza, saltato ogni pretesto narrativo, rimane soltanto l’emotività confusa dello sguardo di Luigiello. Gli occhi chiusi e la massa di ricci ne garantiscono la riconoscibilità nonostante la mancanza di ogni elemento contestuale, mentre sulla superficie del quadro si addensano altre, vaghe concrezioni figurative: un cavallo, un cane, ombre e sagome di altri personaggi, in parte prelevati dal catalogo di giocattoli giapponesi Unai no to mo (1891-1924). UNTITLED è parte di una serie di diciotto dipinti di piccolo formato esposta nei primi mesi del 2023 in due mostre personali a Zurigo e Parigi: “OltrePanico!” da Sentiment e “Repair is the dream” da Campoli Presti. Si tratta dell’unico dipinto della serie montato in una cornice a cassetta di legno anziché d’acciaio, l’unico a rappresentare un volto riconoscibile. UNTITLED è emblematico dell’approccio di Pellicanò a Mancini e, più in generale, ad altre storie dell’arte:
La mia non è una trasposizione citazionistica da un momento pittorico a un altro, ma una connessione spirituale di immedesimazione […] In Dopo il duello non vedo un esercizio pittorico e compositivo, ma un dramma solitario di risentimento e caducità che è espresso dall’emozionalità del bambino […] Il bambino di Mancini per me diventa come un dáimōn personale, una figura rimasta avvolta nel suo enigma e innocenza originari, che io desidero recuperare per portare avanti la sua storia. 1
Esiste, in forma ancora privata, un libro d’artista utile ad afferrare le intenzioni che alimentano questo processo di immedesimazione: Levian. Il testo – un montaggio di disegni, narrazioni, brani poetici e presenze artistiche – è concepito da Pellicanò come “un percorso iniziatico da essere umano, pittore, amante, essere emotivo e spirituale, bambino cresciuto, persona che morirà, che ama, che abbandona, che sbaglia, che si pente, che ‘cade da cavallo’, un modo per integrare in un sistema macro-narrativo e in un’ottica simbolica esperienze personali o di persone vicine a me”. 2
La vicenda e le situazioni narrate, quelle dell’eroe eponimo, dichiarato alter ego infantile dell’artista, costruiscono un mondo alternativo, uno spazio epico cui sembrano appartenere anche le immagini fissate nei dipinti. L’impalcatura favolosa di Levian è puntellata di presenze artistiche, figure del passato che alimentano e allo stesso tempo dichiarano il processo di identificazione empatica ricercato da Pellicanò. Tra queste vi è ancora Luigiello, il fanciullo protagonista anche di un altro dipinto di Mancini: il Ragazzo con soldatini (1876), riprodotto all’interno del libro. Il travestimento borghese è lo stesso di Dopo il duello, ma ora il riferimento violento è trasposto su un piano di realtà ancora più distante: il gioco dei soldatini raffigurato in primo piano, simulacro di battaglia, parrebbe infatti rimandare alla coeva guerra russo-turca. Ancora una volta, il bambino assume il ruolo del protagonista senza compiere alcuna azione evidente: pensieroso, è assorbito da un gioco più grande di lui. Spostando i soldatini come Luigiello, saltando tra realtà e rappresentazione (il quadro/il gioco/la guerra), Pellicanò mescola i piani della narrazione e, con la complicità di Mancini, rivela il potere demoniaco dei giocattoli.
La scelta da parte di Pellicanò di Mancini – e di altri suoi demoni ottocenteschi, tra cui Théodore Géricault – non è dettata esclusivamente dai loro soggetti e dalla loro pratica pittorica, ma risponde innanzitutto alla loro vicenda emotiva e biografica, un’armatura personale pronta a essere indossata e riattivata: “Never travel light / I carry the past / In an armored car / That’s my skeleton”. 3 Nel 1947 il neuropsichiatra napoletano Michele Sciuto aveva affidato a un lungo saggio scientifico le sue riflessioni retrospettive sui problemi di salute mentale di Mancini, concentrandosi in particolare sui suoi numerosi autoritratti. Il testo è utile soprattutto per l’ampia raccolta di testimonianze dirette della pratica operativa del pittore, elementi cruciali per l’affermazione della sua mitologia e per la comprensione della sua pittura:
Il Mancini, stando all’atteggiamento che assumeva, sembrava quasi proiettare sulla tela l’immagine mentale di quel che voleva dipingere, e, vedendola in tal modo, non faceva altro che mettervi sopra i colori per eternarla sulla tela […sembrava che] possedesse al massimo grado la rappresentazione visiva delle immagini, direi sotto forma allucinatoria, per cui vedesse quasi effettivamente proiettata sulla tela la immagine del suo cervello. 4
Il gioco dei rimandi e del mescolamento dei piani si complica ulteriormente: alla finzione del quadro, alla farsa del modellino, al doppio livello del gioco dei soldatini, all’universo emotivo di Luigiello, si aggiunge ora lo spazio allucinato della mente del pittore.
Questo sistema di riferimenti incrociati, basato su connessioni sovrastoriche indirette e non verificabili, sembra riflettere la rete di rimandi che lega tra loro le complesse strutture occulte delle immagini dipinte da Pellicanò, accomunando personaggi, stati emotivi e momenti della storia e del presente apparentemente irrelati. La protagonista di PRISONER’S DISGUISE (2023), ad esempio, potrebbe essere allo stesso tempo la fatina fitomorfa di una fiaba, un personaggio di Levian o, ancora, un rimando al protagonista di un altro quadro di Mancini: Il bambino ferito (1871). Un mistero analogo attanaglia LIGHTING ALL OF THE MATCHES IN THE BOX (2023): quale rituale sta consumandosi nel piccolo spazio del dipinto? Da dove provengono le figurine che si muovono in circolo reggendo una fiamma? Cos’è che satura l’atmosfera rugginosa della scena? Cosa alimenta quelle scariche elettriche? Le immagini fissate dalla pittura esibiscono la stessa consistenza narrativa degli stati onirici o allucinatori, dei racconti popolari narrati a voce, delle vicende giocate dai bambini, in cui i piani della realtà e della narrazione si intrecciano rimescolandosi. L’indeterminatezza spaziale e l’ambiguità temporale delle scene dipinte da Pellicanò rendono possibile un approccio elastico al loro significato: come livelli o chiavi di lettura possono coesistere, mantenendo pari valore, la vita di Mancini, un sabba di Goya e una fiaba di Andersen. Il passato agisce infatti da presenza emotiva, in un meccanismo di connessione empatica che trascende la pura appropriazione stilistica. Spesso, come nel caso di Luigiello, il rapporto è stabilito direttamente con il soggetto della pittura e solo indirettamente, ma in maniera altrettanto potente, col pittore. Mescolando i piani, stabilendo connessioni sotterranee, emerge una forma di continuità, una connessione indiretta tra momenti della storia e del presente, tra personaggi e stati emotivi, che unisce tra loro i quadri di Pellicanò, riallacciandoli allo stesso tempo a una tradizione più ampia. Nella mancanza di una connessione stilistica o di forme di appropriazione diretta, questo rapporto fragile ma presente tra elementi distanti, tra unità sconnesse ma accomunabili, riporta alla mente gli equilibrismi psichici con cui Osvaldo Licini, dopo la guerra, riusciva a collegare, senza legarli, Angeli ribelli, Amalassunte e Olandesi volanti.
In REPAIR IS THE DREAM (2023), dipinto che presta il titolo alla sua ultima mostra, Pellicanò chiama a raccolta un campionario esemplare delle figure simboliche che popolano il mondo che va costruendo. Un albero in primo piano serve sulla destra da repoussoir; alle sue spalle si materializzano diverse presenze fantasmatiche: animali, piante, volti. I diversi livelli della rappresentazione e della pittura si sovrappongono tra loro e diventa impossibile determinare la scala effettiva della rappresentazione. Confrontatosi per anni con tele di juta di formato più grande – vedi le sagome evanescenti di OUR LAST TEMPLE (2019) o il dramma rarefatto di FEAR AND WONDERMENT BECAME ONE IN THE LAST TWO HEARTBEATS OF THE BEAST, THREE TIMES IT FELL TO THE GROUND, THE FOURTH IT WAS LIFTED (2020) – nei suoi ultimi dipinti Pellicanò sembra aver compresso il suo immaginario in uno spazio intenzionalmente ridotto: quello di un vetrino da microscopio o di una miniatura medievale. Come nel gioco dei soldatini, la riduzione di scala innesca un meccanismo di astrazione mentale e semplificazione visiva. Nel sistema ridotto del quadro, diventa impossibile determinare se l’orizzonte del dipinto sia quello di un tavolo da gioco o di un effettivo spazio aperto. In questo regime di ambiguità si collocano quasi tutti i micro-paesaggi inclusi in “Repair is the dream”: frammenti di pittura poco più grandi di un A4, idealmente ricomponibili e potenzialmente ampliabili all’infinito.
Protagonista di TO WARMER DAYS (2023), infine, è una figura in bicicletta che scende lungo il crinale di una serie di montagne – o forse sono i tetti della stessa fila di case che chiude l’orizzonte di TRANSPARENT SUPER WISDOM (2023). Sulla destra la aspetta una presenza animale, forse soltanto un pupazzo. Il materializzarsi concreto delle figure, parzialmente sepolte sotto strati fragili di pittura a olio, testimonia di un processo generativo per intuizioni o allucinazioni successive. La minaccia che incombe sul quadro è confermata dal titolo: a una prima lettura benaugurale, esso si carica di sfumature inquietanti se messo in rapporto all’attuale crisi climatica o, ancora più direttamente, alle fiammate arancioni che avvolgono il ciclista: pompiere o piromane che sia, sembra pedalare via da un incendio che già l’ha raggiunto. Nell’incertezza di cosa e perché stia bruciando, i piani del folklore e della storia dell’arte, della narrazione e della suggestione, delle diverse identità pittoriche, sembrano rimescolarsi un’ultima volta. Se quello sulla bici fosse soltanto un soldatino, magari sottratto al gioco imbastito da Luigiello o al rituale di LIGHTING ALL OF THE MATCHES IN THE BOX, la sua fine sarebbe già scritta: “Il soldatino di stagno vide una gran luce e sentì un gran calore; era una cosa tremenda, e lui non sapeva neppure se fosse la fiamma del fuoco vero o quella dell’amore”. 5