Negli ultimi mesi ho avuto diversi incontri significativi con cigni, oche e anatre. In questo periodo noi esseri umani, distanti da percorsi e routine che ci erano consueti, ci siamo avventurati in territori che appartengono agli animali. Lo abbiamo fatto senza chiedere il permesso, senza stabilire alcuna forma di protocollo, presupponendo che “il mondo intero sia origano”. Questa espressione spagnola si usa quando qualcuno dà certe cose troppo per scontate: come percorrere sentieri e insediarsi in spazi in cui finora gli animali hanno vissuto più o meno indisturbati. Lungi dall’arrabbiarsi, cigni, oche e anatre sono stati più che mai comprensivi, e mi hanno persino tenuto compagnia mentre, in riva a un fiume o a un lago, cercavo di dimenticare le afflizioni di Zoom. Oh! I loro occhi liquidi sono così diversi dalla spiacevole piccolezza delle telecamere. Sono così caldi e così interessati all’atto stesso del guardare e osservare. In realtà ho raccontato loro della mia frustrazione per la progettazione di quella tecnologia: non sarebbe stato meglio se le telecamere ci avessero ripreso anche di lato, come gli occhi di quegli animali stupendi? Lo troverei più discreto ed empatico di questa frontalità imposta. E non potrebbero, le telecamere, essere un po’ più grandi e magari persino ellittiche? Quelle piccole forme rotonde, nel centro esatto dello schermo, hanno un’aria così poco generosa, per non parlare della bruttezza delle scadenti telecamere esterne usate per migliorare la qualità di trasmissione. Quegli occhi di volatili, al contrario, erano comprensivi, e i loro colli assolutamente affidabili. I loro corpi continuavano a muoversi attorno a me, a un ritmo preciso, come se le mie parole avessero un effetto coreografico. E mentre parlavo con questi uccelli — perché bisogna parlarci finché sei a casa loro — loro sembravano rispondere con un verso di Shakespeare: “Non dire mai che il mio cuore ti è stato infedele”! È proprio questo il punto: mi sono arresa a questi uccelli perché i loro cuori sono fedeli.
Entrambi i miei genitori non hanno avuto un’istruzione con tutti i crismi. Da bambini non potevano andare a scuola regolarmente perché dovevano assistere le loro famiglie. A volte, per un anno o due, gli insegnanti non venivano nemmeno mandati in quei territori remoti. Per questa ragione, immagino che fumetti e cartoni animati siano stati di grande aiuto: una fonte di informazione e di gioia. Diversi personaggi dei cartoni televisivi e dei libri di fumetti – Pepé Le Pew, la puzzola francese, Tom e Jerry, Paperino – erano per la nostra famiglia quello che Beethoven era per il cane nell’illustrazione commerciale La voce del padrone (1898) di Francis Barraud. Mia madre, nuova alla grande città, parlava degli uomini che la apostrofavano sui trasporti pubblici come le “puzzole della metropolitana”. Mio padre – il Jerry campagnolo che era riuscito a entrare nel mondo di Tom – spiegava ogni singolo conflitto monetario, ogni questione di interesse o capitale, nei termini del comportamento di Paperon de’ Paperoni. Quelle che in altre famiglie sarebbero state discussioni sull’analisi sociologica di Pierre Bourdieu, a casa mia prendevano la forma di aneddoti con protagonisti Qui, Quo e Qua, i nipoti di Paperino. Anche se tutti siamo consapevoli dei limiti e dei pericoli dell’antropomorfismo, è anche vero che per i miei genitori – cresciuti in una costante coesistenza con gli animali – le citazioni venivano usate senza la minima ironia e considerate fonti attendibili. Ed era giusto così, soprattutto perché leggere e godere più volte degli stessi libri e fumetti è stata probabilmente una delle esperienze più rassicuranti della mia infanzia. Lacrime di empatica disperazione salivano agli occhi di mia madre quando vedeva la puzzola cercare un bacio indesiderato da una controparte femminile. Per mio padre, le montagne di monete d’oro di Paperon de’ Paperoni rappresentavano “l’avidità per il solo scopo dell’avidità”.
E così, la prima volta che ho sentito parlare Ingo Niermann (che guarda caso è il mio amore) e Alexa Karolinski, una cineasta e amica, dell’idea di filmare il sequel di Army of Love (2016), un film presentato alla 9a Biennale di Berlino, curata dal collettivo DIS Magazine, Paperon de’ Paperoni mi è sembrato del tutto pertinente! Cuba è un contesto molto difficile da definire e resta, almeno sulla carta, l’ultimo paese comunista. Ma il paese è prima di tutto “la” isola. Un’isola con una radicale consapevolezza della sua insularità: la sua poesia, la sua filosofia, politica, tradizione, lingua. L’isola è un intero, come se nessun’altra forma di territorio fosse possibile; l’oceano ne abita il cuore come se sulla Terra non esistesse altro. E, per questa ragione, il film non poteva avere altro titolo che Oceano de amor (2019). L’idea iniziale era semplice e bella: far parlare i cubani dell’amore. No, non solo dell’amore, ma del tempo e del compito di vivere quando la manodopera è sostituita dai robot. Robot? Già! Robot! Tutti abbiamo sentito parlare dell’intelligenza artificiale e dei robot e, come si può immaginare, Cuba non sta assistendo a una grande automazione nel momento presente, ma i robot sono come spiriti: magari non ne avete mai visto uno, ma siete ben consapevoli dei loro poteri e delle loro caratteristiche. Chiedere ai cubani dell’amore è una grande richiesta. Quindi, la missione era emanare, con l’aiuto di alcuni grandi amici (Cucu Diamantes, Dolores Mitchell, Malú Tarrau Broche), un appello. L’appello, stampato su un semplice foglio A4, spiegava cosa fosse Army of Love. Era rivolto a diverse comunità, intersezionali, diversificate per origine, identità sessuale e professione, residenti nei diversi quartieri de L’Avana. Il testo, tradotto dallo spagnolo, diceva: “L’Esercito dell’Amore è una associazione solidale che offre formazione, reclutamento, discussione, manuali e video di testimonianze per promuovere la ridistribuzione dell’amore sensuale a tutti coloro che ne avessero bisogno. Dalla sua fondazione nel 2016, l’Esercito dell’Amore ha reclutato e formato persone di varie età, generi, etnie e aspetti in tutta Europa”. Questo messaggio era seguito da alcune informazioni pratiche: se interessati, vi preghiamo di presentarvi sul patio posteriore di una certa villa nel centro de L’Avana il primo luglio. E si presentarono in molti. Secondo l’intera squadra, nelle serate successive agli incontri con i candidati, fu molto difficile compiere una selezione. Dieci persone furono intervistate e filmate, e altre dieci furono invitate alle riprese sull’oceano diverse settimane dopo. Oceano de amor presenta le voci e gli ambienti di queste dieci persone attraverso esercizi coreografici di amore reciproco e di amore verso l’oceano. Per i novanta minuti di questo film suggestivo, le loro testimonianze sono accompagnate dal canto dell’artista Hannah Weinberger. Non sono spinta dall’impulso a idealizzare quando dico che queste persone fantastiche raccontano le loro circostanze difficili, le loro visioni della vita e le loro speranze di amore con voce spontanea e sincera. Sono tutti d’accordo: sì, il tempo per l’amore ce l’hanno. La sofferenza e il dolore sono molto presenti. Si sentono rifiutati a causa dell’incapacità altrui di accettare le loro scelte, la loro identità, la loro povertà, le loro malattie gravi e i sogni irrealizzati. Eppure, tutti nominano uno spazio nelle loro menti, una forma di contatto sulle loro pelli, una sensazione nei loro cuori. Un’emozione appare davanti ai loro occhi quando parlano come kami (le forze scintoiste giapponesi che esprimono l’impossibilità di separare il mondo materiale da quello invisibile). Non c’è traccia del progetto occidentale dell’amore romantico. Qui l’amore è piuttosto un’energia, che non per forza concretizza l’esaudimento di bisogni particolari, ma che ci lega insieme, ci tiene uniti. Anche solo immaginato, questo amore di cui parlano ha un suo effetto. Nel progresso della sua comprensione, esercita gli organi del ricordo, della connessione, dell’interesse e dell’amore per gli altri e per il mondo. Mentre siamo lì con loro, a innamorarci dell’amore, ci rendiamo conto che un altro atto deve ancora verificarsi: il loro incontro con l’oceano. Vivere vicino all’oceano significa rendersi conto che esso ti è stato sottratto. Gli imperi hanno condotto la loro espansione all’interno di una immaginazione oceanica che ha separato gli abitanti originari da tutto ciò che possedevano, da quell’isola e da quelle acque. L’impresa coloniale non ha solo rubato alla gente la vita, la terra, le risorse, ma anche l’oceano. Molte persone sull’isola non sanno nuotare. L’esperienza del mare è stata loro sottratta. Immaginate l’esperienza di vedere, fiutare, avvertire ogni giorno la presenza dell’oceano nella vostra vita senza essere in grado di vivere appieno nel mare. Nell’ultima scena del film, lunga e di grande impatto, li vediamo arrivare sulla spiaggia. Come se si conoscessero da sempre, cominciano a eseguire movimenti semplici ed efficaci. Fluttuare, comunicare con le mani. Danzare balli lenti e aggrovigliati, sentire l’acqua, sentire il sole. Adesso non sentiamo le loro voci, solo i loro corpi che si muovono, trasformandosi, aprendosi all’acqua.
La loro gioia era la mia gioia. Quest’ultima lunga scena ha risvegliato in me un sentimento di totale relazione e possibilità. È morbida e delicata, ma anche profondamente reale. Come le anatre e le puzzole dei cartoni erano reali per i miei genitori e come lo sono oggi i cigni, le oche e le anatre in carne e ossa con cui cerco un contatto, e di cui mi importa tanto. Sì, alla fine del film mi veniva da urlare, fortissimo: “Qua-qua!!” Così forte, che mi avrebbero sentito persino i delfini. Così forte che l’oceano avrebbe potuto tornare per sempre alla gente dell’isola.
Nota: Questa è la seconda parte di una serie di articoli in cui ho intenzione di orientare le nostre menti in modo che combacino con i nostri sensi. Seguite il mio modo di esplorare il racconto di storie come metodologia per affrontare l’arte e gli artisti. Mi sto innamorando di questi giorni, probabilmente perché ho nostalgia del parlare con voi, e questo è il mio modo di avvicinarmi. Il prossimo capitolo ruoterà attorno al lavoro di Taloi Havini, al momento installato – e spero presto visibile – all’Ocean Space di Venezia.