La prima volta che il mio sguardo ha incrociato il lavoro di Lorenza Longhi ho pensato al concetto sfaccettato di rovina di Walter Benjamin in Passagen-Werk1 (1927-1940). È Nadja2 a suggerire per la prima volta a Benjamin “le energie rivoluzionarie che appaiono nell’obsoleto”3. La base dell’analisi politico-sociale del teorico tedesco non è fatta di concetti astratti, ma di prodotti concreti. Interpretando le rovine come merci cadute in disuso, Benjamin individua i resti del suo tempo nel decadente scenario onirico dei passages che “appaiono oggi nelle grandi città come caverne con i fossili di un mostro scomparso: il consumatore dell’epoca pre imperiale del capitalismo, l’ultimo dinosauro dell’Europa. Sulle pareti di queste caverne la merce prolifera come una fauna immemoriale ed entra, come un tessuto ulcerato, in rapporti assolutamente sregolati”4. Proiettando sull’idea di rovina simultaneamente passato, presente e futuro, l’autore formula così una critica del capitalismo moderno a partire dall’oggetto, da una costellazione di referenti storici destinati a fornire una educazione politica rivoluzionario-marxista.
In questo senso il lavoro di Lorenza Longhi è da intendersi come un pensiero poetico di resistenza. Vive attraverso frammenti significanti che riesce a strappare al presente, e di rovine che fa riemergere dal passato.
Da ricercatrice attenta, scruta i formalismi leggibili nelle strutture che ci circondano mettendo in discussione un’estetica funzionale che smonta e ri-assembla. Si cala nelle maglie del tempo, dove si dissolvono i residui che in passato avevano vita, sopravvissuti in mutate forme cristallizzate. Longhi ha il coraggio di osservare i particolari delle figure, liberandole da schemi già ordinati per dare loro nuovi significati.
Gli oggetti d’uso comune, di cui si appropria l’artista, sono elementi visivi attuali o recentemente storicizzati. I corsetti, gli spolverini e i pettini di Benjamin sono diventati libri, pagine di riviste e giornali, tovaglioli, neon, cellophane e mobili modulari.
I materiali utilizzati non sono semplici objects trouvés, non incarnano alcun valore nostalgico-contemplativo, piuttosto sono strumenti di attivazione di un percorso critico.
Incastrati, sovrapposti, sporcati, ingombrano o ricoprono gli ambienti in un gioco di combinazioni narrative sul presente. È così che il lavoro di Longhi avvia una riflessione attorno all’idea di residuo, in altre parole, attorno agli oggetti privati del loro valore d’uso. Né il concetto di “junk culture” degli anni Sessanta, né quello di “product culture” degli anni Ottanta risultano attribuibili a questi lavori, che appaiono piuttosto come l’esito di una “cultura dell’oggetto”, figli di un’era post-duchampiana in cui il concetto del ready-made è stato finalmente metabolizzato. Slegati dal loro status originario, si caricano dei loro stessi significati simbolici, pronti a essere rimessi in discussione e a rappresentare una forza dialettica che incarna la loro qualità disfunzionale. È qui che risiede la loro portata rivoluzionaria. Il materiale proveniente da fonti disparate, raccolto, assemblato e manipolato, sprigiona il proprio codice linguistico al fine di suggerire nuove associazioni che scombinano una dinamica di potere consolidata, producendo una realtà visionaria sovversiva che coinvolge l’immaginazione degli spettatori nella creazione di “fantasie storiche”5.
Così Lorenza Longhi forgia ambienti che trasportano lo spettatore dinnanzi a note formule ripensate, come nella mostra “Visual Hell, New Location” da Fanta-MLN, Milano, nel 2019, che presenta un’indagine sulle dinamiche “aziendali”, a partire dalla decostruzione di alcuni elementi architettonici che ne compongono tipicamente la loro stessa rappresentazione. Modificando lo spazio espositivo con Untitled (2019), un lavoro composto da una struttura in cellophane, legno, cavi in acciaio e tiranti che abbassa l’altezza della galleria a 2,10 metri, Longhi conduce l’immaginario dello spettatore verso quei soffitti e quelle pareti in vetro che caratterizzano i palazzi corporate – che sembrano voler accogliere l’esterno e al contempo imporsi al di là della trasparenza.
Qui la precarietà della struttura va oltre la sua percezione spaziale, e rivela certe barriere sociali invisibili che sottendono politiche di discriminazione di classe.
L’evidente trattamento artigianale dei materiali industriali assume non solo il valore di cifra stilistica, ma diventa un codice di lettura necessario.
Improved Accuracy I e III (2019), sono due neon industriali standard da 120 cm sezionati e successivamente risaldati, la cui giuntura svela sia l’intervento dell’artista che il gas al suo interno. La sua funzionalità produttiva viene così compromessa, come la neutralità della sua standardizzazione estetica. In un certo senso, Longhi mette a nudo la fragilità dell’efficienza dei prodotti che popolano silenziosamente le strutture del sistema capitalistico che ci circonda, mutandone non solo la forma ma la posizione e la portata significante. Sempre nella stessa mostra, Exiled in Domestic Life (2019) presenta un’immagine trovata di una vecchia rivista di display museale incapsulata in una cartellina di plastica e costellata di brillantini adesivi, quasi a costruire un drappeggio kitsch per enfatizzare un’estetica che è stata; mentre il dittico serigrafico Untitled (2019) – che recita le parole “Problem:” e “Action Taken:” – prende in prestito elementi visivi tratti da riviste aziendali di seconda mano, rifacendosi nuovamente alla retorica di un certo tipo di produttività.
In modo diverso, i lavori sembrano ricordarci come alcuni dei frammenti più transitori della modernità abbiano maggiore probabilità di evocare ciò che è sfuggito alla coscienza.
La loro sottrazione all’ordine di natura economica o politica, offre l’unica possibilità di commentare il presente da una prospettiva alternativa a quella della voce dominante. Quella di Lorenza Longhi sembra essere una forma di resistenza attraverso il gesto di trasformazione del particolare di cui si è appropriata. Le tracce di materia commentano una storia, grazie a un riposizionamento della loro esistenza materiale e a uno slittamento del loro significato, per rivelare una verità al di là della facciata dei sistemi di potere. Legando tra loro pezzi di esperienze, l’artista sviluppa spazi entro i quali avviene una rappresentazione oggettivata e una rievocazione di quelle ideologie che risiedono dietro le apparenze.
In occasione di “FUORI – Quadriennale di Roma (2020-21), Longhi ribadisce questa prospettiva con un intervento nello spazio di Palazzo delle Esposizioni con l’opera Untitled (2020), nella quale, i divani progettati da Michele De Lucchi nel 2003 sono stati rivestiti da tessuti di nylon stampati in serigrafia con un motivo disegnato dall’artista. La (ri)personalizzazione dell’oggetto di design ne fa emergere la presenza. L’appropriazione e la manipolazione del materiale esistente, fa leva sulle strategie narrative insite nell’elemento prescelto per affrontare le modalità con cui sono costruiti i valori a cui appartiene. Una nuova versione della precedentemente citata Untitled (2019), abbassa con un telo di nylon il soffitto del palazzo imitandone i lucernari. Interrompendo lo sviluppo in altezza dello spazio, la stanza viene inondata da una luce inconsueta e opaca, mettendo in questione ancora una volta l’idea di trasparenza. Qui Longhi mette in pratica una ricerca intesa come processo visionario in grado di anticipare potenziali rappresentazioni del nostro sistema contemporaneo grazie all’utilizzo di rievocazioni storiche insite nei codici estetici caduti in discuso o che risulteranno presto desueti. Untitled (Tradition Pattern) (2020) incorpora invece, con un twist ironico, dei tovaglioli da cocktail ricamati e montati su teche di plexiglass: ready made che rendono visibili simboli tipicamente borghesi che, decontestualizzati, parlano della loro fragilità. Assorbendo prodotti culturali e ideologici, le opere di Longhi sono dispositivi che commentano le stesse strutture illusorie che restituiscono.
I frammenti di mondo scelti e redistribuiti dall’artista sfidano lo spettatore imponendosi attraverso la loro stessa fisicità, senza far mistero della loro finzione.
Così in Untitled – USM Series (2018), Longhi clona il sistema modulare USM Haller degli anni ‘60: un’icona del rigoroso design svizzero funzionale, neutrale e versatile per ambienti domestici e lavorativi. Adottandone i moduli nella mostra “You’re In Business? I’m In Business”, presso Plymouth Rock, Zurigo (2019), l’artista mette il pubblico nella condizione di ripensare le dinamiche inerenti il prodotto. Attraverso la sua tecnica di selezione, modifica e assemblaggio, Longhi spezza l’identificazione estetica primaria e più istintiva con il soggetto rappresentato, riconoscibile nella forma ma non nella storia che racconta. Lo spettatore è dunque costretto ad adottare una posizione conflittuale nei confronti dell’immagine. Qui Longhi investiga le implicazioni dell’idea di gusto, che governa ogni epoca e ogni economia con inevitabili ripercussioni socio-culturali. Come dice Susan Sontag “Il gusto non è inquadrato in un sistema e non può essere dimostrato, ma ha una sorta di logica: la sensibilità coerente che sottende un certo gusto e gli dà origine. Una sensibilità è quasi, ma non del tutto, ineffabile. Qualunque sensibilità che possa essere ficcata nello stampo d’un sistema, o maneggiata con i grossolani utensili della prova, non è più una sensibilità. Si è consolidata in un’idea…”6. Gli oggetti non sono dunque utilizzati per il loro valore intrinseco, ma per la narrazione che innescano. La loro funzione abortita, abbinata al loro riutilizzo, – il riciclaggio della loro forma estetica riconoscibile, svuotata del significato produttivo –, dà loro la forza di stimolare nuovi discorsi.
Gli elementi appropriati da Longhi sono da intendersi come oggetti frammentari e transitori, che erano, sono diventati, e saranno: prodotti rapidamente storicizzati usati non come fonte, ma come punti di riferimento che si aprono ad altre possibilità di indagine.
“Penetrando nella profondità della rete”7 Longhi non lavora nella prospettiva di una percezione ottica del passato, bensì pratica incisioni nella realtà, evocandone una percezione tattile8. La materialità della rovina diventa visibile nei termini del suo più evidente ruolo critico-dialettico: trasformate in un nuovo prodotto culturale interrogano gli strumenti di potere, in un atto di resistenza. Le opere di Longhi conservano le loro identità individuali come parti di discorsi più ampi, agendo, al contempo, come un insieme unico: interpretate come frammenti, partecipano al significato simbolico complessivo del tutto.
Quello dell’artista è un tentativo di entrare nella carne del presente, fondendo elementi eterogenei, ed evidenziando i paradossi che essi stessi contengono.
Così facendo Lorenza Longhi contribuisce a una rivoluzione estetica che cerca di stabilire un contatto con l’ordine del mondo, nello stesso momento in cui lo mette in discussione. Mentre riflette sulla condizione di prodotto svuotato di valore, attiva una ri-distribuzione delle unità di scambio, avanzando la possibilità di trasformare la rovina a essere oggetto dell’investimento critico più potente.