Valerio Borgonuovo: In che modo il tuo lavoro affronta dinamiche e processi intorno a temi quali adattamento e resistenza, ambiente naturale e urbanizzazione, limite fisico e sconfinamento mentale?
Ludovica Carbotta: Il continuo ripiegarsi e rinnovarsi di ambiente naturale e spazio urbano è contingente alla cultura e alla storia che ne hanno determinato e ne determinano la fisionomia. L’obiettivo a cui tendo è quello di contrapporre all’idea di illimitato quella di limitato, concreto, fisico. Nel mio lavoro rapporto costantemente la mia fisicità all’ambiente e all’architettura. L’idea di illimitato risiede nell’osservazione della società che abita per adattamento ciò che ha edificato, come se la città fosse in realtà un enorme organo cavo. Percepisco la stratificazione di tale architettura come forma appartenente al mondo naturale. Un organismo in perenne metamorfosi. Contenitore e contenuto vengono ripetutamente a ingoiarsi l’uno nell’altro in un ciclo il cui movimento mi affascina. Mi piace pensare di potermi muovere in questo paesaggio esperendone le forme, i contorni, gli odori, gli accessi d’aria, di luce o di ombra; le regolarità e le fratture, ridefinendone il rapporto con la mia fisicità.
VB: Di quali mezzi ti avvali?
LC: L’importanza dell’esperienza si è rivelata fondamentale nella formalizzazione stessa dei lavori e nella scelta dei mezzi: per una scultura i materiali di documentazione di un’azione diventano materiali costruttivi o parti di un meccanismo. La forma del quadro o della scultura rappresenta un tentativo di distacco totale dall’esperienza: dar forma a un’immaterialità per poi contemplare la mancanza di sé nell’oggetto prodotto. I mezzi che utilizzo mostrano diverse attitudini: dalla documentazione dello spazio urbano alla sua rielaborazione fantastica e immaginifica, dall’esplorazione fisica della città agli interventi per modificarne il paesaggio. Passando dal disegno alla scultura ho riflettuto su specifiche attitudini sociali, cercando un rapporto con il reale, con l’azione. Il fattore processuale è fondamentale anche se l’esperienza individuale vissuta è in qualche modo celata. La forma finale è una conseguenza del mio movimento e del mio pensiero, che si apre a risultati inattesi in quanto soggetta all’intervento di casualità emergenti all’interno del processo stesso. Talvolta la coincidenza, l’elemento non cercato a priori, contribuisce a mantenere una parte del lavoro più oscura, nascosta. Questo aspetto è una costante del mio lavoro, l’esperienza che determina la forma non è mai completamente rivelata agli occhi dello spettatore ma costituisce una parte intima e personale.
VB: Potresti chiarirmi la maniera in cui le proprietà emergenti del tuo lavoro influiscono sulla sua “forma” finale?
LC: L’influenza sulla forma finale del lavoro è generata soprattutto dal mio movimento, dalla mia esperienza. Quando parlo di casualità mi riferisco ad alcuni aspetti significanti e legati alla fruizione del lavoro che emergono a cose fatte. Non si tratta di accogliere nel lavoro qualsiasi avvenimento esterno a me, ma piuttosto di scoprire una vicinanza tra la mia attitudine originaria e quello che avviene durante il corso di realizzazione di un lavoro. Quello che non si vede, che rimane nascosto, costituisce uno spazio residuale fondamentale che si configura tanto come spazio di sperimentazione quanto come elemento di controllo e di distanza dall’opera realizzata.