In occasione del decimo anniversario di Punta della Dogana di Venezia, Martin Bethenod e Mouna Mekouar presentano “Luogo e Segni”, mostra incentrata sul tema della memoria e delle sue silenziose connessioni con la poesia. In attesa dell’apertura dell’ex Borsa di Commercio di Parigi, terzo polo della Fondazione Francois Pinault, tracciamo alcuni punti con Martin Bethenod, amministratore delegato e direttore di Punta della Dogana e Palazzo Grassi.
Gea Politi: Quali sono state le grandi trasformazioni che hai osservato e inizializzato, da quando sei a Venezia?
Martin Bethenod: Il mio primo cambiamento è stato quello di rendere stabile una realtà sempre in cambiamento.
Un passo importante è stato chiarire i due luoghi, Punta della Dogana e Palazzo Grassi, e la loro missione. Era chiaro che il fulcro dovesse essere l’arte contemporanea dal punto di vista di una collezione privata. Un altro aspetto era trovare la giusta puntualità e definire un rigore, motivo che ci ha spinto ad inaugurare le due realtà nello stesso giorno senza disperdere energie, concentrandosi su produzioni molto importanti. Nell’insieme, si tratta di un progetto esteso su più di 6.000 metri quadri. Una produzione immensa, con l’obbiettivo di creare forte massa critica intorno, con la stampa internazionale che si concentra in un periodo solo. Per queste due mostre abbiamo scelto appositamente di inaugurare prima della Biennale. Sono felice che sia un’azione condivisa con anche altre realtà come Fondazione Cini e Thyssen che hanno aperto negli stessi giorni.
Non siamo obbligati ad avere una programmazione come a Parigi o New York ma possiamo dedicarci a progetti annuali e molto ambiziosi.
GP: Avete creato una comunità nel tempo.
MB: Creare una comunità è stata un’altra missione: quando abbiamo aperto eravamo visti proprio come una colonia francese o un consolato. È stato imperativo per noi creare una comunicazione e una relazione con le altre realtà veneziane, comprese le università. Nel 2013 è stato introdotto il Teatrino, che ha permesso di cristallizzare tutte le nostre attività insieme, con un programma culturale molto intensivo, posizionandoci nella mappa dell’arte come produttori culturali e non solo come collezionisti con attività presenti tutto l’anno. Questo ci ha permesso di instaurare relazioni profonde con la città. Per finire la relazione con Tadao Ando diventata continuativa con Palazzo, Punta, Teatrino e ora anche con il palazzo della Borsa. Ad oggi, escludendo “Luogo e Segni”, abbiamo mostrato 700 lavori, un totale di 163 artisti dall’apertura.
GP: “Luogo e Segni” sembra anticipare ciò che Rugoff vuole affrontare in “May You Live In Interesting Times”. Il nostro presente-futuro catastrofico sembra essersi radicato all’interno del pensiero progettuale di molti artisti. Il rapporto con Venezia, la posizione geografica di Punta della Dogana così aperta verso il mare, e la relazione degli artisti partecipanti con poesia e letteratura. Come avete costruito “Luogo e Segni”?
MB: Molti artisti presenti in questa mostra sono anche invitati nella sezione di Rugoff, come ad esempio Neïl Beloufa, Julie Mehretu, Jean-Luc Moulène. Questi artisti sono molto presenti nella collezione Pinault ma si tratta solo di una piacevole coincidenza, avendo lavorato su questa mostra per un anno, quindi lontani dal pensiero che la Biennale potesse abbracciare elementi e temi simili.
Per esempio sono molto felice che Dominique Gonzalez-Forster stia lavorando a un progetto appositamente per la Biennale, mentre qui esibisce uno dei lavori più storici. Per la Biennale è molto importante avere la produzione più recente, per noi invece è fondamentale sottolineare la ricerca e acquisire opere tra le più significative dell’artista.
GP: Come e perché hai deciso di collaborare con la curatrice Mouna Mekouar?
MB: Avevamo molti amici in comune e seguivo il suo lavoro da tempo. Un fattore non banale è che Mouna ha lavorato con due dei direttori di musei di arte contemporanea più prestigiosi della Francia: Jean de Loisy di Palais de Tokyo e Laurent Le Bon del Centro Pompidou Metz e devo dire che sono ottime referenze!
La mostra di Philippe Parreno a Palais de Tokyo è stata un gesto prodigioso ed estremamente complesso dal punto di vista della produzione. Ammiro molto la sua indipendenza. Ha lasciato il Palais de Tokyo subito dopo quella mostra, nel punto più alto della sua carriera presso l’istituzione. Il suo approccio alla letteratura, poesia e scrittura è molto aperto, compresa anche la sua visione del Marocco (il suo paese nativo), del Libano e della sua cultura. Aggiungo che Mouna ha una personalità straordinaria.
Ci siamo incontrati un pomeriggio per sfogliare i cataloghi e libri delle mostre realizzate a Punta della Dogana, salutandoci poi senza commentare. Dopo due settimane abbiamo cominciato un ping-pong di idee partendo dalla collezione.
GP: Come avete poi tratteggiato la mostra?
Ero partito dall’idea di lavorare sulla storia di Punta della Dogana e di Venezia. La ricerca ha portato me e Mouna alla poesia e alla letteratura con un processo intuitivo ed organico. Anche l’idea di mostrare artisti che non fossero stati mai esposti nelle nostre collezioni. Trisha Donnelly o R. H. Quaytman sono delle artiste di cui vedi poche mostre, sono occasioni rare e molto ponderate. Rebecca Quaytman non era stata mai mostrata in Francia e in Italia aveva avuto un’apparizione in Biennale. Nella mostra si percepisce la strana vibrazione che tutti gli artisti presenti hanno delle connessioni personali. Julie Mehretu e Tacite Dean, Liz Deschenes, Rebecca Quaytman e Trisha Donnelly hanno mostrato insieme. La madre di Rebecca, Susanne Hoe, è stata grande amica di Etel Adnan.
Mouna ha visto un libro di Etel Adnan nella libreria di Roni Horn al suo primo studio visit.
GP: È interessante vedere come un’istituzione culturale funzioni come un’impresa con tutti i ruoli che appartengono ad essa. Tu ricopri tre ruoli in uno: Direttore, Amministratore delegato e curatore…
MB: Molto importante è capire qual è il tuo ruolo. Fino all’anno scorso ho ricoperto tutti i ruoli. Non penso che sia necessariamente il modello giusto. È importante costruire una dialettica tra il direttore e il curatore, per questo non sono solo in una mostra come “Luogo e Segni” ma con un co-curatore. È estremamente importante discutere e avere una visione esterna della collezione.
È come il rapporto tra l’editore, il caporedattore e il giornalista. Lo scambio e la frizione fanno il giornale. Oppure, in questo caso, la mostra.