Su un recente numero di Science, una delle più autorevoli riviste scientifiche a livello mondiale, un folto gruppo di ricercatori di Harvard in partnership con GoogleLabs, l’ufficio ricerca e sviluppo di Google, ha pubblicato uno studio nel quale viene presentato un nuovo strumento di ricerca capace di interrogare uno sterminato database ottenuto dalla digitalizzazione di milioni di volumi in varie lingue effettuata da Google, e tuttora in rapida, ulteriore espansione. Il motore di ricerca (consultabile online all’indirizzo www.culturomics.org) permette in particolare di valutare l’incidenza percentuale nel tempo di una determinata parola, o gruppo di parole in un ordine dato, all’interno di tutti i testi, valutando così il livello di “diffusione” di quella particolare unità all’interno dell’ecologia di significato costituita dall’intero corpus dei libri indicizzati. L’analogia abbastanza immediata, per quanto non priva di sfumature sottili da chiarire, con la genomica ha indotto i ricercatori a parlare in questo caso di culturomica — la pervasività di una determinata parola all’interno del corpo dei testi sarebbe cioè il riflesso della “espressione culturale” di quella parola, ovvero del suo contributo a un determinato processo di formazione del significato.Un’analisi culturomica ci permette allora per esempio di determinare come cambi nel tempo la capacità di influenza culturale a seconda di quanto frequente sia l’associazione tra un determinato tratto di attività culturale (come “arte”, “cinema”, o “design”) e il paese che siamo interessati a studiare (“Italia”, “Germania”, “USA”, eccetera). Allo stesso modo, possiamo analizzare la dinamica di influenza culturale del paese in termini della sua associazione nel tempo con alcuni tratti che ne descrivono qualità culturali di particolare rilevanza (“stile”, “genio”, “fascino”, “estetica”, e così via). Nell’attuale versione del database, i dati più ricchi e meglio utilizzabili sono quelli relativi ai testi in lingua inglese. Nell’ambito di una ricerca tuttora in corso, e della quale mi sembra interessante anticipare alcuni risultati ai lettori di Flash Art, sto analizzando l’incidenza, nella letteratura in lingua inglese, di alcuni marcatori culturali relativi sia ai tratti di attività che a quelli di qualità culturale per un certo numero di paesi di riferimento: Italia, USA, Germania, Francia, Gran Bretagna, Cina, Giappone, lungo l’arco temporale del XX secolo. Nell’interpretare questi dati, bisogna naturalmente tenere conto dell’esistenza di un effetto distorsivo derivante dall’esaminare una letteratura esclusivamente in lingua inglese (il database si aprirà progressivamente ad altre lingue, e alcune sono già presenti), ma dovendo comunque scegliere una lingua di riferimento si tratta, per comprensibili ragioni, della scelta meno distorsiva in assoluto, essendo l’inglese la lingua nella quale, indipendentemente dalla propria lingua madre, si produce la maggior parte dei testi scientifici e si traduce la maggior parte dei testi artistici e letterari.
Vediamo allora qual è il quadro che si produce affrontando dapprima alcune forme di attività culturale rappresentative del più ampio sistema delle industrie culturali e creative. Associamo così ai vari paesi i seguenti marcatori: “arte”, “architettura”, “cinema”, “design”, “teatro”, “moda”, ma anche “cibo”, considerando che ormai l’alta cucina viene sempre più frequentemente considerata una particolare forma di design. I risultati sono quelli che potete leggere nei rispettivi diagrammi. E concentriamoci in particolare sulla posizione relativa dell’Italia all’interno di questo quadro, che ci permette di avere una visione piuttosto interessante dell’evoluzione del potere di influenza culturale del nostro paese.
Per comprendere il senso di questi dati, è necessario tenere a mente alcune cose: sono dati che descrivono dei mutamenti di lungo termine più che di breve; in particolare, il modo migliore di leggerli è quello di pensare non soltanto al livello delle curve, ma anche all’area che si trova al di sotto di esse: è l’accumulazione nel tempo del numero di occorrenze che conta nel definire la percezione culturale di un paese. In secondo luogo, i dati descrivono la diffusione sociale di un determinato marcatore nel suo senso più generale. Per cui, quando si parla per esempio di “arte italiana” o di “design italiano” si intendono tutti i possibili modi con cui i due termini vengono associati, compresi quelli metaforici, e quindi non ci si riferisce soltanto a specifici prodotti di designer italiani o a specifiche opere di artisti italiani. D’altra parte, in questo modo si ha una misura di quanto una determinata associazione di termini si è sedimentata nell’immaginario collettivo. Possono così aversi, in via di principio, delle eccellenze creative locali che non “bucano” l’immaginario e restano poco citate a livello globale, e viceversa esperienze creative modeste che però conquistano visibilità globale, eccetera. Infine, le occorrenze delle coppie di termini non si riferiscono necessariamente all’arte, al design, alla moda italiana, francese o americana dell’anno in cui compaiono nei testi. Per esempio, un elevato numero di occorrenze per la coppia “arte italiana” nell’anno 1900 non vuol dire che si parli molto dell’arte italiana prodotta nell’anno 1900: si tratta, verosimilmente, anche di un elevato numero di citazioni comparse in libri pubblicati nell’anno 1900 che fanno riferimento all’arte italiana medievale o rinascimentale.
All’inizio del Novecento, l’Italia è dominatrice incontrastata nel campo dell’arte, vince anche se di stretta misura nell’architettura, è seconda solo ai francesi nel design e nella moda, non è in posizioni di primo piano nel teatro e nel cibo, mentre il cinema deve ancora fare la sua comparsa.
Alla metà del Novecento (ovvero, nel corso degli anni Cinquanta), l’Italia parte dal terzo posto nell’arte e scivola al quarto nel corso del decennio, parte dal quarto e scivola al quinto nell’architettura, conquista una breve supremazia nel cinema che però perde già prima della fine del decennio, si mantiene al quinto posto nella moda, oscilla tra il quinto e il sesto posto nel design e nel teatro, e mostra una progressione dal settimo al quinto posto nel cibo.
Nel 2000, l’Italia è settima (su sette) nell’arte, nel teatro e nel cinema, è sesta nell’architettura, è quarta nel design, è terza nel cibo e nella moda. In altre parole, quel che emerge è che nel corso del Novecento l’Italia perde nettamente posizione nei settori culturali, mentre mantiene una buona percezione globale nei settori creativi legati al design in tutte le sue forme, pur non potendo vantare in nessun campo una posizione di preminenza globale. L’unica area nella quale si registra un miglioramento di lungo termine di posizione relativa nel corso del secolo è quella del cibo.
Se ragioniamo invece sui marcatori di significato, possiamo notare che l’Italia all’inizio del Novecento predomina in “lusso” e “stile” è seconda per “bellezza”, terza per “genio” e “immaginazione”, mentre è debole per “fascino” ed “estetica”. A metà del Novecento, è seconda per “bellezza” e “stile”, terza per “lusso”, quinta per “genio” (con una breve, temporanea ripresa a cavallo degli anni Sessanta), oscilla tra i terzo e il quinto posto per “immaginazione”, scende lungo il decennio dal secondo al settimo posto per “estetica” e rimane nelle basse posizioni sul “fascino”. Nel 2000, è seconda per “bellezza”, quinta per “genio” e “stile”, settima per “estetica”, “fascino”, “immaginazione” e persino “lusso” (per cui era nettamente prima all’inizio del secolo). Il quadro sembra dunque abbastanza chiaro: l’Italia di fine secolo è un paese molto meno capace di produrre una forte influenza culturale di quanto fosse all’inizio del secolo, e si è notevolmente indebolita su caratteristiche che pure continuiamo spesso ad associare a una nostra presunta leadership globale.
Per una curiosa inversione logica, quando si presentano dati che mettono in discussione le nostre certezze consolatorie, si viene spesso bollati di catastrofismo: il che, essendo queste evidenze empiriche e non opinioni, sarebbe più o meno come rivolgere la stessa accusa a un referto di analisi cliniche preoccupanti. Ma chi ha più a cuore la salute del malato, chi lo rassicura senza motivo invitandolo all’ottimismo o chi vorrebbe che si curasse sulla base delle indicazioni delle sue analisi? Qui l’unico catastrofismo, non immaginario ma reale, è quello di chi continua a far finta di niente e lascia che il nostro paese scivoli sempre di più verso la periferia dell’immaginario globale senza fare nulla, crogiolandosi in un patetico compiacimento, che ha sempre meno fondamento nella realtà. E condannando i nostri migliori talenti, che non vivono di retorica ma di opportunità professionali e di valorizzazione del merito, a emigrare verso lidi più ospitali. La nostra identità culturale è uno dei pochi futuri promettenti che abbiamo, o meglio che avremmo se investissimo su di essa. Facciamo qualcosa finché siamo in tempo.