Loredana Barillaro: Memoria, passato, esistenza, solitudine: sembrano questi gli elementi fondanti del tuo lavoro.
Maria Adele Del Vecchio: Mi interessa tutto ciò che può essere contraddetto, tutto quello che improvvisamente rischia di perdere evidenza oggettiva, trasformandosi nella propria assenza. Nel punto in cui l’affermazione di qualcosa si trasforma nella negazione di qualcos’altro, io ingrandisco l’immagine e la propongo al fine di condividere un percorso in cui l’opera è strumento di comprensione, o forse accettazione dell’impossibilità di comprensione della vita. La solitudine, comunque, ho il dubbio che non esista, che sia un errore percettivo.
LB: Anche la durata gioca un ruolo molto importante nei tuoi lavori, dove il coinvolgimento emotivo appare molto forte e diventa azione.
MADV: Molte delle mie opere evocano l’immagine di me che “faccio qualcosa”, un misto fra ritualità e azione, un blando performare. Niente di cui pentirmi (2007) è il momento finale di un lavoro che mi ha vista strappare le pagine a me più care di alcuni fra i libri che ho amato. Il fatto di “vivere” la realizzazione del lavoro è parte imprescindibile della mia poetica. Anche nel caso di Untitled (2007), in cui mi sono immersa in mare vestita, a febbraio (con il disagio che la situazione comportava), non avrei mai potuto ritrarre qualcun altro, perché non avrei “agito” l’opera.
LB: All’interno di una dimensione che appare quasi di isolamento, si avverte uno stato di malessere, che a sua volta sembra tradursi in un certo rigore formale.
MADV: Difficilmente le persone conoscono le cause profonde del proprio agire e delle proprie scelte. Credo che il rigore nasca dalla precisa esigenza di fare un’arte che affronti questi aspetti dell’esistenza, distruggendone gli automatismi. Molte delle mie opere, dagli specchi agli spotlight, inducono lo spettatore a guardare se stesso e a focalizzare la propria attenzione su di sé.
LB: Senti ancora di doverti ribellare a qualcosa o l’aspetto “politico” ha caratterizzato soltanto una fase della tua ricerca?
MADV: Le autorità alle quali mi ribello non sono le istituzioni create dagli uomini, ma i limiti dell’umano pensare. Soggetto alla propria caducità, l’uomo esiste e si afferma nella transitorietà e nella finitudine, nei piccoli benefici del qui e ora; è a questa incapacità di immaginare l’infinito e di collocarsi nel cosmo che mi ribello. Quando propongo una realtà specifica — come nel caso dell’anarchico Gaetano Bresci — è perché ritengo sia funzionale all’opera e al discorso che la sottende.
LB: In che misura la tua infanzia entra nel contesto dei tuoi lavori?
MADV: Si inserisce raramente e in maniera iconica. Le mie opere sono spesso autoreferenziali, ma quasi mai autobiografiche: non sono le mie vicende personali a strutturare il lavoro, piuttosto uso la mia immagine e prendo spunto dalla mia esperienza, sia per elaborare un percorso sia per formalizzare un progetto, ma non perché voglia raccontarmi.