Simone Ciglia: Come definiresti la tua ricerca artistica?
Matteo Fato: La mia ricerca si concentra sull’analisi dell’intesa tra immagine e puro segno, sull’istante che precede la trasformazione del segno in un linguaggio riconoscibile. Un equilibrio rappresentativo in cui il linguaggio viene addomesticato e disciplinato affinché si posizioni sul limite della realtà.
SC: La riflessione sul linguaggio verbale è un aspetto centrale del tuo lavoro. Come si articola il rapporto tra pittura e scrittura?
MF: Lo studio del linguaggio rappresenta, nel mio caso, il tentativo di re-imparare la pittura ogni volta che la eseguo. Ciò che mi interessa maggiormente è il valore simbolico della parola. Pittura e scrittura sono sempre state legate, sia nella nostra cultura sia in quella orientale. Come in ogni linguaggio, anche in pittura è importante trovare la parola giusta. Nel momento in cui osservo un oggetto e lo disegno, mi sembra di eseguire un “dettato” della realtà.
SC: Come gran parte delle ricerche artistiche contemporanee, anche la tua è caratterizzata dall’utilizzo di una pluralità di media. Tra questi, il video assume un rilievo particolare.
MF: Ho sempre utilizzato il video come supporto pittorico, realizzando per ogni opera centinaia di disegni digitali montati a formare una sequenza visiva. Ultimamente il mio rapporto con il linguaggio del video è divenuto più complesso. In particolare, nell’ultimo lavoro che ho realizzato, il passaggio è stato inverso: il disegno reale su carta è divenuto video attraverso la fotografia.
SC: La presenza della scultura è un altro elemento di novità comparso recentemente nei tuoi lavori.
MF: Si tratta di un’esigenza pittorica. Ho sempre utilizzato la fotografia come strumento per memorizzare. Poi ho capito che ciò di cui avevo bisogno era semplicemente lavorare con la realtà, sentire “la religione delle cose”, per usare le parole di Pasolini. È per questo che ho voluto produrre degli oggetti: per rileggere il disegno attraverso l’oggetto che ne deriva. La scultura mi porta inevitabilmente ad affrontare in modo diverso anche lo spazio. L’esperienza della mia ultima personale alla Galleria Cesare Manzo — allestita nelle due sedi di Roma e Pescara — mi ha “costretto” a trasferire i miei gesti nello spazio reale. Attraverso il lavoro simultaneo in due luoghi diversi, ho concepito lo spazio come un foglio dove disporre pittoricamente gli oggetti.
SC: In occasione delle tue mostre curi anche la pubblicazione di un libro: più che un catalogo, è un vero e proprio libro d’artista.
MF: Di solito il catalogo rappresenta una mera documentazione della mostra e assume un carattere commerciale. Da parte mia, invece, testimonia il tentativo di fermare la pittura all’interno di qualcosa. Da qui, la necessità di creare un oggetto studiato nei minimi particolari: nella carta, nell’inchiostro, come quando si dipinge. Il libro diventa così un elemento importantissimo della mostra, una sorta di flip book memoriale di ciò che è stata. ?