Il tempo corre, e Maurizio Cattelan si è stancato di passare sempre per il solito buffone che volge tutto al comico, che stimola la nostra cinica risata appendendo il proprio gallerista al muro o chiudendo una vecchietta in frigorifero. Ora Maurizio Cattelan si dà a riflessioni serie. Pensa alla morte. Non che non ci abbia mai pensato, a dire il vero, che anzi la signora con la scure è sempre stato uno dei suoi temi ricorrenti, da Bidibibodibiboo, il piccolo scoiattolo suicida, a Piumino, la tomba per un cagnolino. Ma questa volta lo fa in modo chiaro, diretto, e soprattutto senza la solita ironia.
La città in cui ha allestito la nuova mostra, Bregenz, sul placido Lago di Costanza, è invasa da poster che ne riproducono il basso skyline arso dalle fiamme, verso cui cala un grande pollice dal cielo. La forza del destino o le decisioni del potere che passano sopra le teste? La caduta degli dei o un monito terribile che pende sopra i destini del mondo? In ogni caso, sembra il prologo di un film tragico e distruttivo.
Un po’ gli sarà stato suggerito dalla città, che durante la guerra venne rasa al suolo dai bombardamenti. Forse un po’ anche dal museo (Kunsthaus Bregenz), quel Kub dell’architetto Peter Zumthor che irradia di luce opalescente la notte della cittadina, il cui minimalismo algido delle pareti interne di cemento a vista non concede al piacere dei sensi molto di più della stanza fredda di una morgue. Ma se la storia della città e il museo — e certo anche i tempi, quelli attuali — invitano a riflettere sulla morte, anche la raggiunta maturità dell’artista aiuta. “La morte è un soggetto straordinario, l’unico che abbia lo stesso peso della vita. Se vuoi parlare della vita devi pensare prima alla morte”, diceva Cattelan già qualche tempo fa. E ancora: “Noi siamo forse le uniche creature intimamente consapevoli del fatto che dovranno morire, anche quando la morte non è imminente. Sappiamo che la morte è una cosa che fa paura. Altre creature ne hanno paura solo quando è presente, quando un’enorme bocca spalancata sta per mangiarsele; noi umani invece ce ne stiamo seduti tutti tranquilli e all’improvviso te ne esci con un ‘oh, fuck! Devo morire’”.
La mostra si svolge in verticale, è un’ascesa-ascesi, spirituale… Spirituale? Sì, perché quel burlone che ci aveva abituati alla leggerezza dell’ironia, per quanto con un fondo tragico, o al fragore della provocazione, questa volta ci presenta dei lavori senza sorpresa, solo da vedere e meditare. “La morte è come un punto esclamativo: dà senso a tutto, ma toglie ogni suspense”.
Salendo al primo piano ci accoglie una strana famigliola: due labrador accucciati e in mezzo a loro un pulcino. Sembrerebbe, in realtà, un inno alla vita, pur con la sua fragilità, quasi che i cani, in posizione di vigile difesa, vogliano salvaguardare la nuova creatura. In ogni caso, la natività è anche il primo passo verso la morte, e la gracilità del pulcino la dice lunga su quanto la vita sia sempre un miracolo, in fondo, una fortuita eccezione. Basta poi salire di un piano per tornare a bomba sul tema.
Qui, nove sacchi bianchi ricoprono altrettanti corpi umani. Quante scene di questo tipo abbiamo visto in televisione, dopo un incidente, o un attentato, con salme disposte in un luogo di raccolta in attesa di un funerale, magari di Stato, come di solito accade dopo una strage! “Non amo per niente i funerali — dice Cattelan — oggi il mondo è così pieno di martiri. Forse è tempo di fare meno rumore”. Infatti è un lavoro silenzioso, che bisognerebbe osservare con un po’ di raccoglimento. Non c’è alcuna venatura umoristica, come si diceva, ma non manca il doppio gioco. I nove pezzi sono di marmo. Cattelan riesuma la grande statuaria. Come nel Cristo velato di Napoli, ma senza l’eccesso di virtuosismo barocco, il marmo bianco di Carrara fa risaltare tra le pieghe dei panneggi le forme dei corpi, ciascuno disposto in modo diverso, tragicamente casuale. Memore di secoli di scultura, dalle Pietà di Michelangelo a Lo spirato di Luciano Fabro, il marmo li riporta con classicità dentro la storia dell’arte. Non passerà per altro inosservato il contrasto tra l’istantaneità e l’anonimato di una morte accidentale, di gruppo, e il senso di presunta eternità che il materiale conferisce al lavoro. “È un requiem di un sogno”, aveva detto Cattelan della scultura Now, che ritraeva John Fitzgerald Kennedy deposto a piedi scalzi in una bara. Ora si tratta di un requiem per tutta l’umanità.
Infine, ecco l’ultimo lavoro della mostra di Bregenz, che appare quando dall’infilata delle scale si sta per salire al terzo piano: una ragazza in camicia da notte chiude l’accesso, afferrandosi con le mani allo stipite della porta, col capo reclino e il volto quasi nascosto dal suo braccio. Cosa apre, cosa chiude la porta dietro quella sorta di crocifissione muliebre? Potrebbe sembrare un eccesso mistico. Adesso Cattelan ci vuol dare anche una lezione sull’aldilà? In realtà quell’immagine, una scultura iperrealista, è tratta dal cammino dell’arte. Quello recente, beninteso: è la rappresentazione tridimensionale di una fotografia di Francesca Woodman, l’artista americana morta suicida nel 1981. È ancora un pensiero sulla morte, questa volta sul suicidio: la morte come scelta di vita. Citandola, Cattelan non solo esalta il senso della foto, ma sottolinea l’importanza dell’esperienza di vita dell’artista. Quel ladro disinvolto, sempre pronto a far sua l’altrui esperienza, sia quella del vicino che quella di un altro artista, ora rischia l’esperienza dell’apostolo.
“Ho dei parametri e la mia vita a questo punto è paragonabile ai sedimenti di una vecchia tazza da caffè e vorrei piuttosto morire giovane, preservando ciò che è stato fatto, anziché cancellare confusamente tutte queste cose delicate”, aveva detto la giovane Woodman.
Cattelan ormai è troppo vecchio per morire giovane, e troppo giovane per morire vecchio. Come tutti noi è costretto a percorrere la sua strada sempre più incrociata da dubbi che da certezze. E così la presenza della morte si fa meno lieve. “Ho maneggiato cadaveri — aveva detto una volta — quando lavoravo in un obitorio, e mi sembravano così sordi, così distanti. Forse è colpa di quel lavoro, ma quando penso a una scultura me la immagino sempre così: lontana, in qualche modo già morta”.
Sono lontani i tempi in cui Pigmalione creava sculture così vivide da innamorarsene o Michelangelo scagliava il martello contro il Mosè urlando “perché non parli?”. La scultura di Cattelan è ora una doppia morte. Primo perché la rappresenta, poi perché è essa stessa già nel recinto dell’arte. “Morire, morire di più, morire meglio, morire ancora” è il sottotitolo del libro che viene pubblicato per l’occasione con un bel saggio di Bice Curiger. E qui non manca ancora una sorpresa: quel volume con testi e immagini del suo percorso artistico, dalla grafica classica e asciutta, a guardare bene, è fatto interamente a mano. Non da lui, certamente, bensì da un calligrafo cinese. Ma in fondo, questa attenzione alla manualità, per uno come Cattelan che non ha mai smesso di ammettere di non avere mai toccato un lavoro con le proprie mani, è anche un recupero del valore delle cose fatte con dedizione. L’arte è anche questo, la cura artigianale che prolunga l’esistenza in opposizione alla mercificazione diffusa. Noi moriremo, ma forse l’arte resterà. Ars longa, vita brevis.