La 58a edizione della Biennale di Venezia, a cura di Ralph Rugoff, non ha un tema di per sé. Adottando un approccio che legge necessariamente la produzione artistica all’interno della sua sfera sociale, questa biennale di interroga su quanto i dati e le posizioni sulla realtà siano inclini alla polarizzazione e come invece sia auspicabile ripensare le categorie di pensiero esistenti, offrendone un’alternativa.
Alex Bennett: Nonostante la mancanza apparente di un tema specifico, la 58a edizione della Biennale di Venezia è stata divisa in due mostre separate: “Proposition A” e “Proposition B” (che in qualche modo sembrerebbero complementari). Puoi raccontarci i cambiamenti strutturali e le ragioni che li sottendono, in questa edizione della biennale?
Ralph Rugoff: Il punto di partenza per me è stato la necessità di una risposta al clima sociale culturale e politico attuale, caratterizzato da una dialettica estremamente polarizzata. In Gran Bretagna c’è la Brexit e negli Stati Uniti un presidente che sostiene di conoscere fatti alternativi e che crea il suo personale sistema di notizie – che sembrano non avere nulla a che fare con la realtà. In parte questo nasce dall’ondata crescente di populismo. Sono rimasto colpito da quanto sia facile per una società polarizzarsi al punto tale che le due parti non riescano più a comunicare, credendo a fatti e realtà completamente distorti. Di qui l’idea è quella di concepire una biennale che fosse realmente un’alternativa a se stessa. Queste due proposte sono l’una l’alternativa dell’altra. Quello che realmente volevo enfatizzare in questa ondata-Twitter in cui viviamo – dove la comunicazione è via via ridotta – è che l’arte è il luogo: l’arena e il mezzo attraverso cui riusciamo ancora a dare spazio a una comunicazione più complessa. La comunicazione può essere ambigua e contraddittoria, con diversi livelli di significato e pone domande più di quanto riesca a dare risposte. È qui che l’arte prende le distanze dal giornalismo, dal dibattito politico, dalla scienza, e ancora da gran parte della didattica e dalle altre forme di media commerciali. L’arte è una sperimentazione molto più aperta all’interpretazione, di conseguenza la sua qualità di ricerca, di curiosità multidimensionale sono le caratteristiche che ci tenevo a sottolineare con forza, proprio perché sembra che questo tipo di comunicazione si stia estinguendo. Le due mostre sono concepite in modo tale per cui lo stesso artista presenta opere molto differenti in entrambi gli spazi, pensati come una piattaforma per sperimentare e mostrare al contempo come sia sfaccettata e complessa la propria pratica artistica – non solo l’opera in sé, ma anche il modo in cui lavorano, le diverse dimensioni che si svelano al suo interno. Sapevo fin dall’inizio che avrei coinvolto un numero piuttosto ridotto di artisti, così che il pubblico avrebbe avuto la possibilità di godere degli aspetti diversi del lavoro di ognuno.
AB: Ho letto che L’opera aperta di Umberto Eco è stato per te un testo molto influente, soprattutto in riferimento all’approccio curatoriale che hai adottato per questa biennale. Ti andrebbe di dirmi in che modo ha influito sul concepimento della mostra?
RR: Ho letto quel testo quando frequentavo ancora l’università e mi ci sono imbattuto nuovamente in una nota bigliografica mentre lavoravo a questa biennale, così ho avuto modo di rileggerlo. Gran parte dei motivi per cui l’arte è così importante per me e quello che significa per la società si possono trovare nelle parole di Eco, in questo libro del 1962. Come molti altri prima di lui, incluso Duchamp, questo testo enfatizza l’idea che l’arte sia una conversazione con l’osservatore, la cui interpretazione è parte cruciale dell’opera stessa. Il lavoro non è mai compiuto nel momento in cui si incontra, questo è soltanto l’inizio del suo compimento, supponendo che questo avvenga. Questa biennale vuole parlare a un pubblico e dargli l’opportunità di rispondere o avviare una conversazione – di cui la mostra è il catalizzatore. Il momento più significativo di una mostra è quando le persone vanno via.
AB: Una delle caratteristiche più illuminanti di questa biennale è proprio il titolo. È un riferimento al discorso pronunciato da Sir Austen Chamberlain alla fine degli anni Trenta del Novecento, che invocava un’antica maledizione cinese davanti a una crisi: “possiate vivere in tempi interessanti”. È una frase molto ambigua che suggerisce un occultamento volontario della comprensione. Questa maledizione, quale figura retorica fittizia, genera un’influenza tangibile che tu descrivi in questo caso un “artefatto incerto”. Questa incertezza di cui parli appare evidente nell’ambiguità e nell’interpretazione e l’artefatto ne rivela la dimensione storica. Come si manifesta la logica di artefatto incerto nella curatela?
RR: L’aspetto per me più interessante delle opere si trova nel mezzo, tra le categorie normali, ed è difficile individuarne nuove in modo semplice, piuttosto ci portano a mettere in discussione le categorie esistenti. Citare una frase così peculiare e con motivazioni storiche forti – Hilary Clinton la usa nella sua autobiografia del 2003 – è al contempo parte di una narrativa fittizia. Narrativa e narrazione sono intrecciate nella nostra cultura con il nostro modo di interpretare la realtà in maniera molto più intricata di ciò che pensiamo. Yuval Noah Harari parla di tutto, dalla religione agli stati nazionali alle grandi corporation come narrative fittizie – sulla cui esistenza e importanza siamo d’accordo e decidiamo di credere, ma che non sono reali in nessun altro senso. Una delle qualità di un’opera d’arte riuscita è che provochi uno stato di incertezza coinvolgente, un’incertezza attiva. È uno stato di ricerca speculativa, quello in cui si pensa attivamente.
AB: Una caratteristica di “May you live in Interesting Times” è la metodologia attraverso cui i confini – siano essi immateriali, fisici o di qualsiasi tipo – vengono ridefiniti. Mi chiedo se il senso dell’umorismo sia palesato nei lavori inclusi – con lo humor bisogna entrare in spazi poco confortevoli in modo tale da ampliarne il significato. Secondo te esiste una frequenza dello humor nei lavori?
RR: C’è lo humor e poi anche una sorta di spirito giocoso. A volte quest’ultimo potrà non far ridere ma provocare una riflessione. Alcuni giocano con le convenzioni e i differenti tipi di linguaggio ma questo non produce humor di per sé.
AB: La presenza della pittura è molto preponderante…
RR: Paradossalmente, penso che la pittura sia il mezzo migliore per osservare come la tecnologia digitale ha modificato la nostra relazione con le immagini. La pittura parla con un linguaggio più lento, ci permette di riflettere su questi cambiamenti senza tuttavia esserne parte. È necessaria una certa distanza per guardare con lucidità alle cose, proprio per questo penso che l’arte sia di grande valore, perché possiede la distanza dall’artificio. Nella mostra ci sarà anche molta fotografia, con la presenza di artisti come Anthony Hernandez, Stan Douglas, Rula Halawani e Gauri Gill.
AB: Hai altre ambizioni per questa Biennale?
RR: Penso che la curiosità sia la caratteristica chiave, che motiva anche tanti artisti. Mi auguro che sia una mostra che desti curiosità. Questo è il mio obiettivo principale: essere curiosi e interessati abbastanza da riflettere sulle domande che sono state poste.