Tentando di leggere il mondo nella sua complessità e utilizzando la metafora del labirinto, Milovan Farronato – curatore del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia – rende ancora un volta esplicita la sua attitudine curatoriale nel restituire un sistema di conoscenza non lineare, distorto e fallace. Riflettendo sul dispositivo mostra, Farronato destruttura la concezione di percorso aprendo infinite possibilità di esperienza e lettura.
Giulia Gregnanin: Milovan, in conferenza stampa hai dichiarato quanto il display sarà un meccanismo fondamentale nel configurare l’esperienza del visitatore. Sembra tu voglia invitare a una osservazione attiva dei lavori che si dipani verso innumerevoli letture.
Milovan Farronato: Nel labirinto di “Né altra Né questa”, che abbiamo disegnato con Enrico David e Liliana Moro, in compagnia astrale di Chiara Fumai, vi saranno tanti possibili percorsi che andranno a definirsi in base alle scelte prese da ciascun visitatore. Girovagando tra gli ampi corridoi e i cul-de-sac dell’allestimento, il pubblico potrà decidere di volta in volta come orientarsi all’interno del labirinto. La mostra si offre generosamente a molteplici interpretazioni, in qualche modo mi piace pensare che in questo progetto coesisteranno tante mostre parallele, tante quante le esperienze del pubblico che attraverserà il nostro intricato tracciato. Fin dall’ingresso ci si troverà di fronte alla necessità di compiere una scelta: andare a destra o sinistra? E poi anche all’interno un continuo susseguirsi di biforcazioni e inviti a tornare sui propri passi. Anche le opere esposte e la loro successione, in dialogo costante tra loro e con l’allestimento, riveleranno la natura rizomatica del nostro labirinto. Ad ogni modo, tutti i percorsi sono validi perché, come scrisse Umberto Eco nel 1984 nella prefazione de Il libro dei labirinti di Paolo Santarcangeli, “anche le scelte sbagliate producono soluzioni e tuttavia contribuiscono a complicare il problema”.
GG: Enrico David, Chiara Fumai e Liliana Moro hanno accorciato ai minimi termini la distanza tra la propria ricerca e il loro vissuto. Mi chiedo se sia proprio questa prossimità ridotta che ti abbia spinto a selezionarli e in cui ti sia, più o meno volontariamente, rispecchiato e riconosciuto.
MF: Lo studio di Enrico a Londra coincide con il suo luogo di vita. Un’apertura senza porta è la soglia per accedere dal primo al secondo. Anche per Chiara quando viveva a Milano si trattava di casa bottega, così come per me sin dai tempi di Viafarini. Per Liliana invece il confine si inspessisce e articola in una strada: viale Monza, casa a destra, studio a sinistra. Distanza percorsa quotidianamente, dieci minuti a piedi. Questa è certo una ricorrenza che ho incontrato tra tanti artisti con cui ho lavorato negli anni, come ad esempio Goshka Macuga, Roberto Cuoghi, Prem Sahib, SAGG Napoli, Patrizio Di Massimo – quindi non credo che sia questa una ragione primaria della mia scelta per il Padiglione. Per me contava la complementarità tra le loro ricerche e la possibilità di raccontare storie intricate dove le variabili superano le costanti.
GG: Hai inoltre parlato di come le pratiche degli artisti racchiudano sia una visione apollinea che una dionisiaca. Questo mi ha fatto riflettere sul baccanale come possibile dispositivo curatoriale. Credi che, attraverso la sua spinta sfrenata alla trascendenza, possa essere uno strumento adatto a contrastare i radicati nazionalismi?
MF: Con ogni intervento si aprono tante possibilità di risposta e reazione. Credo che l’attualizzazione di idee attraverso l’arte sia un modo per dare loro forma concreta, testarle, e così magari influenzare le persone che vi partecipano offrendo loro la possibilità di interagire con una realtà dai valori “altri”. In questo senso certamente alcuni progetti possono diventare espressione di contrasto rispetto a certi sistemi culturali o politici. Tra i miei progetti per il Fiorucci Art Trust posso ricordare alcune presentazioni di stampo conviviale, ritualistico e “profano” – caratteristiche che distinguono per l’appunto la genesi del baccanale in epoca romana. Penso alle theatre dinners coreografate da Paolina Olowska dentro Villa Kadenowka insieme ad altri partecipanti di Mycorial Theatre, una forma di simposio sperimentale che Paulina ed io abbiamo concepito insieme, prendendo ispirazione dai metodi educativi del Black Mountain College. E ancora a Stromboli, dove ogni anno si svolge il festival da me fondato con il titolo Volcano Extravaganza, abbiamo promosso un modo di fare arte che si nutre profondamente delle ispirazioni nate in momenti di estasi collettiva. Spesso questa è dovuta alle particolari condizioni dell’isola – quali la vicinanza ad un vulcano attivo, l’accentuato caldo estivo, l’essere lontano da tutto e tutti – e alle circostanze del festival come momento di scambio fluido, senza limiti creativi, in cui tutto è permesso (nei limiti di ciò che è reperibile a Stromboli!).
GG: Quali sono le traiettorie che secondo te sta percorrendo l’arte italiana in questo momento? Dall’interno la paura è che il suo “sistema labirinto” non sia connesso con i dedali internazionali, ben più competitivi e rispettivamente collegati.
MF: Credo che da questo punto di vista il MiBAC stia facendo un ottimo lavoro di promozione e sviluppo della comunità artistica che vive nel nostro paese. Grazie alle attività dell’Italian Council, promuovono l’arte italiana a livello internazionale sostenendo la produzione di nuove opere che verranno poi esposte in importanti istituzioni all’estero. Parallelamente si impegnano anche a organizzare occasioni in cui a curatori stranieri viene data la possibilità di venire in Italia e fare studio visit con artisti. Da sei anni vivo a Londra e vedo l’Italia da Stromboli in primis che è un luogo particolare; transito frequentemente tra Milano e Napoli che considero città di grande dinamismo per le rispettive scene artistiche, che trovo più ferventi oggi di alcuni anni fa
GG: Ti sei mai perso e ritrovato?
MF: Sì, più di una volta. La prima è stata proprio a Venezia, avevo cinque anni ed ero andato a visitare la città con i miei genitori. Mentre loro, forse attirati dal luccichio dell’argento, si fermavano a guardare le affollate bancarelle degli antiquari in Campo San Maurizio, io mi addentravo tra le calli all’inseguimento di uno stormo di piccioni. Non avevo mai visto tanti uccelli tutti insieme. Forse un presagio. In alcune culture, come lo Scintoismo, sono simboli molto potenti. In quell’occasione non avvertii una sensazione di paura, ero in un tempo dilatato in pacifica attesa di essere ritrovato. Venezia ha una trama urbana tipicamente medievale, serrata e labirintica, rimasta praticamente invariata dall’epoca di Marco Polo. Lo scrittore Tiziano Scarpa consiglia a chi visita Venezia di assecondare il labirinto, di non combatterlo e di lasciarsi guidare dal proprio istinto attraverso i rami, le salizade e le crosere. Nel 1988 Jean Baudrillard scrive a proposito di Suite Vénitienne – il lavoro di Sophie Calle nel quale l’artista francese insegue per due settimane l’appena conosciuto Henri B – che Venezia è una trappola, un labirinto che riconduce sempre negli stessi luoghi e dove tutti si incontrano e riconoscono in continuazione. L’unico modo per non essere visti è essere l’inseguitore e confidare che l’inseguito non si volti, altrimenti si invertirebbero i ruoli.