Il mio primo incontro con Nicola Carrino è stato polemicamente negativo. Accadeva al tempo della prima edizione (dialetticamente postinformale) di “Alternative attuali”, organizzata nel Castello Spagnolo de’ L’Aquila nel 1962, ed era rispetto al Carrino del Gruppo Uno – sulla spinta dell’azzardata ideologia arganiana astrattamente programmatoria che interpretava il “gruppo” come “moralità” sociale, contrapposta a una presunta “immoralità” dell’itinerario individuale. Ed era quando Dorazio, già un suo artista, ruppe clamorosamente con Argan, azzardato erede di “modernità” sulla scena nazionale, da poco scomparso Lionello Venturi. Tracce della mia diffidenza sul passaggio accelerato del neofita Nicola da esperienze “informali” a composte esibizioni strutturali d’astrazione “programmata” si possono ancora rintracciare in un saggio su Neoconcretismo, arte programmata e lavoro di gruppo, pubblicato ne Il Verri nel 1963, e successivamente ripreso in Ricerche dopo l’Informale (Officina Edizioni, Roma 1968).
Come mi è sempre accaduto, imparando dai fatti, l’incontro in positivo con il lavoro originalmente nuovo di Carrino, e in particolare con i suoi singolari “costruttivi trasformabili” subentrati lungo gli anni Sessanta, è avvenuto invece conseguentemente a quanto proposto nella sala della Biennale di Venezia del 1970. Ed è stato subito l’avvio di un confronto collaborativo sviluppatosi in un rapporto del tutto positivo con il maturare della sua nuova ricerca. Insieme a Mino Trafeli invitammo Nicola a partecipare a “Volterra 73”, con un’importante installazione urbana trasformabile; e subito dopo alla VII Biennale d’arte del metallo di Gubbio; e ancora ad “Ambiente come sociale” alla Biennale di Venezia del 1976. Infine, a conferma della nostra collaborazione progettuale, l’ho incluso in “Operazione Arcevia”, nel 1979.
Dei suoi “costruttivi trasformabili” mi interessava l’implicazione dialogica progettuale semanticamente determinante, e l’implicita estensione partecipativa alla formulazione complessiva dell’evento plastico: dal massimo ordine costruttivo a un possibile aperto disordine significativo; dunque in una dinamica estensiva della comunicazione plastica nei termini di un’attualistica sollecitazione partecipativa del fruitore-collaboratore (ne parlo in Arti visive e partecipazione sociale, De Donato, Bari 1977). Il mio dialogo con il lavoro di Nicola in quegli anni si andava configurando in una prospettiva innovativa di implicazione partecipativa, laddove l’apprezzamento circolante del suo lavoro risultava prevalentemente formalistico, in venerazione d’ascendenza staticamente geometrica, o stereometrica, se si vuole. L’implicazione partecipativa era scarsamente compresa, o comunque sostanzialmente disattesa. Mentre per me, negli anni, è rimasta feconda la misura di un dialogo con l’evoluzione progettuale in atto nel suo lavoro plastico.
Con Nicola ho continuato a collaborare persino andando a cercare il suo lavoro orafo (a Fano, nel 1985, in “L’oro della ricerca plastica”), o invitandolo, con Pietro Cascella, a realizzare una inusuale “colonna” in “Campo del Sole” a Tuoro sul Trasimeno, nel 1989; oppure ancora coinvolgendolo in stimolanti presenze fra la XXI Biennale di Gubbio, nel 1992 e la rassegna di Alatri, nel 1996. Nicola costruì persino un’originale “vetrina” per il mio archivio in Via di Ripetta, nel 2008. Fino al nostro ultimo incontro in occasione di “Volterra 73–15” nel 2015. Ricordo tutto questo perché sono state occasioni, di volta in volta, nuove – di approfondimenti, dibattito, aperture, collaborazioni: nella prossimità di un dialogo originale che ha allargato l’orizzonte problematico dei miei interessi in possibilità nuove di operatività plastica nei termini di una processualità aperta e partecipabile, di un’inerenza progettuale di consapevole implicazione ambientale e anche specificamente urbana. Un dialogo nel tempo, le cui motivazioni, le riconosco come una tenace componente formativa del mio vissuto – eravamo praticamente coetanei.