La Biennale di Venezia, nonostante la concorrenza e l’età, resiste e ancora una volta è occasione e traino per entrare in contatto con visioni dell’arte molto diverse tra di loro. In questa edizione il contributo più efficace proviene dai padiglioni nazionali che, pensati in un’altra epoca, non solo offrono indizi significativi su come le istituzioni dei vari paesi gestiscono il rapporto con l’arte in un contesto ufficiale e quanta autonomia siano disposti ad accordarle, ma sono sempre di più dispositivi per rimettere in gioco storie, storie dell’arte e geografie. Detto questo, nella sovrabbondanza di offerte, all’Arsenale, ai Giardini e nei moltissimi spazi dislocati nel tessuto urbano, gerarchie e percorsi si ridefiniscono soggettivamente e, se il padiglione che rappresenta l’arte del nostro paese potrebbe essere considerato una presenza tra le altre, in realtà non è così. La configurazione che esso ha assunto con la guida di Vittorio Sgarbi mette in campo questioni (e fraintendimenti) che richiedono di essere considerate con molta attenzione.
Come è noto, il curatore ha affidato la selezione degli artisti a circa 300 intellettuali italiani attivi in diversi ambiti, ha eliminato da questa rosa i critici d’arte, ha introdotto in mostra lo slogan “l’arte non è cosa nostra”, con un doppio riferimento che rimanda letteralmente alla mafia, in relazione alla riproduzione in loco del Museo della mafia da lui stesso fondato a Salemi e, metaforicamente, al sistema dell’arte. Niente di nuovo per chi vive in Italia, difficile da capire per chi vive altrove e non ha un contatto diretto con il nostro paese; in sostanza, si tratta di una logica che conferma un carattere centrale del pensiero egemonico di questi anni, dove Sgarbi ha individuato nei cosiddetti “esperti” il male da estirpare e, di conseguenza, ha agito. Proviamo a considerare da vicino questo gesto: l’arroganza di chi si arrocca e difende il potere in nome del sapere è velenosa (e non ha niente a che vedere con le battaglie in nome delle idee), ed è un problema ricorrente nella storia e nell’attualità, ma se lo riportiamo al padiglione italiano di quest’anno e al clima culturale nel quale esso è stato pensato, francamente ho qualche resistenza a convincermi che siamo al cospetto di un moto rivoluzionario. Non aiuta neanche la difesa d’ufficio di un ruolo: potrebbe trasformarsi in un boomerang dove il discorso si arena in un gioco di accuse reciproche e tutto ciò che si può ottenere è la rassicurazione del tutto illusoria di avere individuato dei nemici chiari.
Dato l’alto numero di partecipanti e nonostante l’ampliamento dello spazio dedicato, l’allestimento è fitto: centinaia di lavori convivono senza soluzione di continuità, l’atmosfera è soffocante e tutto sembra costruito perché lo sguardo non si fermi su un lavoro più di qualche secondo. Nella visione d’insieme, prevale un’inesorabile ripresa di stilemi noti. Sembra che tutto sia possibile e tutto possa indistintamente convivere con tutto ma all’interno di una realtà autoreferenziale e refrattaria al dialogo con tutto ciò che la circonda.
Si potrebbe liquidare la questione in velocità, affermando che il padiglione è brutto, sovraffollato, volgare, anacronistico, ma anche questa soluzione non è convincente.
Evitando di avventurarsi nei sentieri a cui ho accennato poco sopra, un’ulteriore ipotesi è affrontare la mostra nell’ insieme, ma solo dopo avere assunto e messo al lavoro il senso di disorientamento che personalmente ho provato in loco, dove l’effetto più complicato da gestire è stato la percezione di non avere strumenti adeguati per capire. Credo che questa confusione agisca a un livello più profondo ed è questo il sintomo che mi interessa indagare. Mi chiedo cosa sia e ho il sospetto che l’obiettivo che questa operazione ha centrato è l’aver reso tangibile una confusione che riguarda tutti, ovvero la difficoltà di stabilire dei criteri di valutazione, una confusione che qui emerge in modo eclatante, ma che attraversa tutto il mondo dell’arte, compresi gli esperti, i portatori di sapere che, è bene ricordarlo, non sono proprio tutti arroccati a difendere un potere.
Le ragioni sono note e sono in questi anni oggetto di accese discussioni; ovviamente c’è chi ignora il problema e preferisce andare avanti come nulla fosse. Rientrato il disorientamento — ma non la sensazione di vivere in un paese dove l’arte ha tutta l’autonomia di cui necessita ma solo fino a quando è poco visibile — come si diceva un tempo, è necessaria una verifica. La figura del critico forse ha ancora un senso, non tanto nelle vesti di selezionatore, né di autore di testi-manifesti sugli artisti. Mi riferisco a una pratica che fa poco rumore e consiste nel continuare a ragionare sulle questioni complicate che riguardano gli sviluppi del linguaggio dell’arte, il contesto in cui l’opera nasce e successivamente è esposta e, ancora, nel presidio, da sempre problematico, dei confini mai stabili che permettono di individuare cosa appartiene a questo ambito e cosa no. In sostanza, questa mostra sembra mettere in campo una domanda radicale che sfiora le questioni epistemologiche poste dal ready made duchampiano, dove uno degli aspetti principali è lo spostamento della determinazione del significato del lavoro dall’opera al contesto. Vecchia storia, tutti i manuali di storia dell’arte ci dicono che è un problema superato ma la questione si rianima, immancabilmente, ogni volta che si pone un problema relativo ai bordi esterni di quello che in un dato momento è considerato come il campo dell’arte, e cioè continuamente, poiché l’arte dall’inizio del XX secolo a oggi ha sviluppato un’attitudine fortemente inclusiva nei confronti del reale dove però l’inclusione non avviene perché qualcuno lo ha deciso ma è l’esito di battaglie combattute dagli artisti con i loro lavori e da critici e curatori con i loro scritti e le mostre. Sostanzialmente si tratta di un lavorìo dove l’attività principale è la distinzione, non nel senso inteso da Pierre Bourdieu, ma qui intesa semplicemente come scelta.
A proposito di confusione e problemi epistemologici, sono arrivata a chiedermi se la mia resistenza di fronte a questo padiglione potesse avere qualcosa in comune con l’atteggiamento di coloro che, trovandosi davanti l’orinatoio di Duchamp, decisero di non metterlo in mostra giudicandolo “brutto”, “volgare”, “non adeguato” alla situazione, o di coloro che giudicavano con aggettivi molto simili gli esordi degli artisti pop. Stiamo forse mancando di registrare l’emergere di una ondata di novità capace di interpretare il nostro tempo con un’efficacia tale che l’arte che frequentiamo abitualmente non riesce più a ottenere? Se così fosse ci troveremmo davanti a un’operazione clamorosa.
Il dubbio che questa volta l’agognato ampliamento liberatorio dei bordi del campo dell’arte sia costruito su fondamenta che non consentono di procedere in questa direzione è impossibile da dissipare. Proviamo a ripartire dai criteri selettivi, penso alla decisione di coinvolgere una rosa di noti intellettuali. Per quanto essi possano essere effettivamente conoscitori e appassionati d’arte, in questa occasione non sono tenuti a comportarsi da esperti, cioè in quanto conoscitori del linguaggio dell’arte, della sua storia ecc., ma sono investiti di un ruolo che prevede libertà di azione, compresa quella di non dovere tenere necessariamente in considerazione vincoli, convenzioni e storia del linguaggio dell’arte. Questa ulteriore confusione ci spinge in un territorio indistinto, dove il confronto con un linguaggio specifico perde di valore e ciò che disorienta è il tentativo di farci credere che basta non considerare i confini per fare sì che i confini non esistono. Nelle svolte significative prodotte dagli artisti contemporanei, una costante è la consapevolezza, il tener conto del linguaggio dell’arte, inteso sia come ostacolo da superare o da abbattere, sia come convenzione da modificare. La rivoluzione di Sgarbi, la sua promessa di un mondo dell’arte liberato e finalmente accessibile, prende le distanze da questa specificità, la evita e viene smascherata dai lavori degli artisti. La molteplicità degli sguardi, a cui egli fa affidamento, potrebbe essere interpretata come un gesto inclusivo e per questo democratico, ma la confusione dei criteri, l’indistinto che supera ogni convenzione, è e resta un trabocchetto dove i primi a essere danneggiati sono gli artisti più giovani: gli artisti noti e con un percorso solido alle spalle si salvano, gli artisti giovani e per questo poco conosciuti, rischiano di scomparire nell’indistinto prima ancora di affermarsi. La distanza tra le dichiarazioni del curatore e gli effetti del suo gesto rivelano non solo come la promessa di un mondo dell’arte libero si concretizzi in un’operazione direttiva e manipolatoria, ma anche come l’indistinto non sia l’inizio di un sovvertimento ma una riproposizione dell’esistente dove, riprendendo parole note, sembra che tutto cambi perché tutto rimanga com’è.