L’Italia, la nostra Italia, l’Italia nostra si sa è un Belpaese e si sa che: paese che vai e gente che trovi, paese di Eroi, Santi, Navigatori, paese Patrimonio dell’umanità per l’arte antica e mai paese veramente moderno, anzi paese profondamente antimoderno. In questo Belpaese, infatti, mi capita sempre più spesso di imbattermi in articoli che il mio provincialismo di stra-paese mi fa dire: “Ma perché solo in Italia Paese si scrivono queste cose?”.
Perché in questo paese c’è a volte un ritardo culturale e di informazione che fa fare congetture antimoderne così pretestuose?
Infatti, mi è recentemente capitato in questo paese di leggere e sentire alcune polemiche contro l’arte moderna e contemporanea che non hanno né capo né coda. Per carità, la polemica è il sale del dibattito e io non sono contro chi polemizza, contro chi non è d’accordo con le mie idee e di chi, come me, in questo paese pensa che l’arte moderna e contemporanea sia necessaria, solo che mi piacerebbe leggere delle critiche fondate, costruttive e non per partito preso che, invece, in un senso o nell’altro, sono lo sport nazionale di questo nostro paese. La polemica nel Belpaese ha qualcosa di nazionalmente viziato nel senso che non esiste alcun paese in cui la polemica antimoderna sia così ostinata come da noi, contro un’arte di cui spesso chi polemizza non ne conosce le evoluzioni, come si intuisce dalle argomentazioni che porta a sostegno della propria polemica di paese. Infatti, si polemizza facendo di tutta l’arte contemporanea un prodotto duchampiano, si continua a sostenere che l’arte contemporanea è incomprensibile, che la pittura non esiste più, che è stata messa da parte, che non si giudicano più le opere secondo il metro della bellezza, ma secondo metodi hegeliani di costrutto teorico.
Ma in che paese vivono queste persone? Che arte guardano, che musei visitano, che gallerie e soprattutto artisti frequentano?
Difatti, tutti questi luoghi comuni del paese di sopra sono oramai stati sfatati da quando, verso la fine degli anni Settanta, si è entrati nella fase della postmodernità, anzi da allora in poi la cultura tutta in molti paesi si è posta la questione del piacere, della bellezza e del superamento di Duchamp. A questo proposito valga l’esempio di un lavoro di un artista di un altro paese, Sherrie Levine, Fountain (after Marcel Duchamp), 1991: si tratta di un’appropriazione dell’orinatoio del monello francese, ma nella sua versione Levine presenta un orinatoio dorato, perché per lei l’opera non è più un ready made, ma un manufatto, un artefatto, un oggetto prezioso bello e ben fatto e in questo modo potremmo dire che Duchamp è andato anche a farsi benedire. In molti paesi, anche nel nostro, di questi esempi ne potrebbero seguire molti altri e difatti al di là delle Alpi la questione in tal senso si è esaurita da tempo, o almeno non presenta tale visceralità. D’altra parte è proprio nel nostro paese che agli inizi degli anni Settanta si è prodotto in anticipo un ritorno alla pittura, proseguito poi con forza internazionale dalla Transavanguardia che qui non è stata ancora digerita, perché siamo un Paese dove si perdona tutto, tranne il successo. Difatti, siamo ancora a discutere di pittura sì, pittura no, bellezza sì, bellezza no, piacere sì, piacere no, il che dimostra un ritardo nella conoscenza dei fatti e degli sviluppi dell’arte e della società stesse. Pittura, bellezza, piacere e similari sono stati riabilitati da decenni e da allora ci troviamo di fronte a opere nei confronti delle quali diciamo mi piace o non mi piace. Pensiamo al lavoro di Ettore Spalletti che fonda tutta la sua forza su queste nuove/antiche categorie. Questo non a caso è avvenuto alla fine della modernità, collocabile verso lo scadere degli anni Settanta, quando è mutato lo spirito del tempo, quando anche nel nostro paese si è passati da una società in cui hegelianamente ci si interrogava con approcci fondati su tesi, antitesi e sintesi, a una postmoderna in cui bastava rispondere con l’aggettivo bello, brutto e così via.
Ricordo, infatti, che mentre fino ad allora di fronte a qualunque cosa si usavano le parole interessante, non interessante, però obbligatoriamente seguite da argomentazioni varie — insomma bisognava dimostrare di essere intelligenti —, nella postmodernità il paradigma di giudizio cambia e comunemente di fronte alle cose si dice mi piace, non mi piace, bello, brutto, fantastico!, super!
Ora questo è il nuovo linguaggio e ci piaccia o no è il nuovo spirito del tempo pure in questo mio e vostro Belpaese, purtroppo per molti versi ancora antimoderno.