Riunite per la prima volta dopo quasi mezzo secolo, le quattro Intersuperfici bianca, blu, gialla e rossa che Scheggi espose alla 33ma Biennale di Venezia del 1966, nella Sala LVIII del Padiglione Centrale alla mostra “Gruppi di opere: pitture, sculture e grafiche” introdotta dal testo critico di Nello Ponente, sono riproposte al pubblico internazionale di Art Basel. Fu in quella manifestazione che le quattro Intersuperfici furono presentate insieme alle opere di artisti italiani quali Bonalumi, Guarneri, Castellani, nell’anno in cui Lucio Fontana fu premiato con il suo ambiente ovale illuminato di luce bianca e percorso da tele bianche attraversate da un unico taglio. Grazie ad accurate ricerche, le Intersuperfici di Scheggi, tre delle quali provenienti da collezioni private e una dal Museum für Konkrete Kunst di Ingolstadt, saranno esposte ad Art Basel da Tornabuoni Art, accompagnate da un catalogo che ne ricostruisce filologicamente le vicende, pubblicando documenti inediti e fotografie dell’epoca. Completa il progetto un talk dedicato a Scheggi nella scena artistica milanese degli anni Sessanta, a cui parteciperanno Luca Massimo Barbero, curatore del Catalogo ragionato dell’artista e dal Direttore del Département du développement culturel, Centre Pompidou e Direttore del Musée national d’art moderne di Parigi, Bernard Blistène.
Giancarlo Politi: Franca, tu sei stata, oltre che moglie, anche una stretta collaboratrice di Paolo Scheggi. Nei nostri incontri Paolo mi spiegava che tu lo aiutavi spesso anche nella realizzazione delle opere. In che modo?
Franca Scheggi Dall’Acqua: Sì, Giancarlo hai davvero ragione, il nostro fu un rapporto creativo straordinario, unico e irripetibile. La mia collaborazione non è però da intendere nel senso più ovvio e banale del “garzone di bottega”. Il nostro costruire insieme si alimentò soprattutto di un dialogo fittissimo dove ognuna delle parti contribuiva con riflessioni, sensazioni, emozioni proprie su ciò che aveva visto e vissuto sia insieme che separatamente a proposito di un film, un libro, una mostra, un nuovo incontro. Un dialogo privatissimo tra noi due, al quale partecipavano a volte quelle poche persone fidate che, come Getulio Alviani o Germano Celant, trascorrendo qualche giorno a Milano con noi, onoravano la nostra casa della loro amicizia e della loro intelligenza. Poi, in pubblico, il mio ruolo arretrava, mi zittivo, mi ponevo qualche passo più in là, ben consapevole e orgogliosa che di Artista ve ne fosse uno e uno soltanto: e quello era lui.
GP: Attorno al lavoro di Paolo c’è stata subito una forte attenzione. Lucio Fontana in primis, ma anche Umbro Apollonio era suo grande estimatore e me ne parlava spesso. Poi Gillo Dorfles, Giulio Carlo Argan e altri. Che ricordo hai di questi personaggi?
FSDA: Una domanda, questa, molto impegnativa, alla quale rispondo prima di tutto dichiarandomi orgogliosa e onorata di averli potuti conoscere. Del loro ruolo pubblico tanto si è detto, vorrei aprire invece delle piccole finestre di ricordi privati. Lucio Fontana, amico dei miei nonni Sartori, quando conobbi Paolo era perseguitato da mia madre, che gli ripeteva: “Pensi Fontana che disgrazia mi è capitata, mia figlia si è innamorata di un giovane artista squattrinato e senza futuro”, e Fontana le rispondeva: “Signora Ada non si preoccupi, ien giuin!” Di Apollonio ricordo la calda e affettuosa ospitalità nella sua casa traboccante di libri al Lido di Venezia, la sua umanità che ogni volta si materializza quando rileggo le sue belle lettere che iniziano con quel “caro Paolino….”, e quel loro modo di comunicarsi non solo le notizie ufficiali, ma anche le paure, i desideri, in una ricerca ininterrotta di verità profonde. Di Argan che molto si adoperò aiutandomi a realizzare nel 1976 la mostra alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna, come dimostrano le lettere che mi scriveva seguendo lo sviluppo del progetto, con quella sua calligrafia così speciale, minuta e ordinatissima. Lettere sempre di suo pugno e a stretto giro di posta. Che grandissima lezione di stile! Se penso a certi “quaraquaqua”… Da Dorfles invece ebbi il più bel complimento ricevuto da un uomo nella mia vita. Allora parlavo con un orrendo accento lombardo-milanese così che Paolo, fiorentino DOC, mi impegnò in un durissimo corso di dizione. Un giorno, durante un viaggio in Toscana, c’era con noi anche Germana Marucelli, a un tratto Dorfles si girò verso di me e mi disse: “complimenti Franca, come hai imparato a parlare bene!” Quale riconoscimento, dopo tanto patire!
GP: Sul lavoro di Paolo poi c’è stato un silenzio lungo trenta anni. La sua riscoperta è stato un atto di giustizia della Storia oppure hanno contribuito l’attenzione e il lavoro particolare di qualcuno? A chi va il merito del suo recupero?
FSDA: Sì, Giancarlo un silenzio lungo trent’anni e ti sono grata di darmi qui l’occasione di parlare per la prima volta. Quel silenzio non fu la beffa di un destino crudele, ma l’atto di una scelta voluta e perseguita da me per Paolo. Mi spiego: dopo le due belle e impegnative mostre alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna nel 1976 e a Firenze, alla Sala d’Armi di Palazzo Vecchio nel 1983, mi resi conto della scarsa attenzione nei suoi confronti, sia da parte del mercato che della critica. Il mondo inseguiva altri linguaggi, altre visioni, altre mode: per Paolo non era tempo. Così, e fu la decisione più meditata e sofferta della mia vita, decisi di sigillare il progetto, consapevole che se questo Artista aveva detto qualche cosa di importante, il tempo gli avrebbe dato ragione; altrimenti, sarebbe comunque stata una bellissima esperienza umana per me. Naturalmente io non sapevo se quella resurrezione ci sarebbe stata e se mai io un giorno avrei potuto vederla. Ma per “salvarlo” non vedevo davanti a me altra possibilità di scelta. Tra le nuove generazioni di studiosi, alla fine degli anni Novanta Luca Massimo Barbero iniziò a “far vedere” di nuovo la ricerca di Paolo, inserendolo in mostre di grande intuizione, quali Monocromo-Bianco a Vicenza nel 1997 e Materia-Niente alla Bevilacqua La Masa nel 2001, le cui titolazioni dimostrano la consapevolezza del critico di individuare temi portanti e centrali — il vuoto, la monocromia, la relazione tra opera e artista, opera e spettatore, la metafisica nell’oggettualità dell’opera — del lavoro di Scheggi. Poi, nel gennaio del 2002 a Palazzo Strozzi, proprio nella Firenze di Paolo, per la mostra “Continuità. Arte in Toscana” vedevo la gente di fronte alle sue tele fermarsi più a lungo e con maggiore attenzione. Pensai “forse ci siamo!”. Seguirono Artefiera a Bologna, la mostra e il bel catalogo alla Galleria Niccoli di Parma, con testi di Luca Massimo Barbero e Gillo Dorfles, tra gli altri. Ma poi, come proseguire? mi chiedevo. La risposta fu una sola e altrettanto meditata: certamente non puntando sulla mostra-spettacolo in qualche museo, ma lavorare sulle radici. Con Ilaria Bignotti giorno dopo giorno, anno dopo anno incominciammo a riordinare quei cataloghi che molti anni prima, giovane ventenne, avevo raccolto con tanto amore. Al contrario di oggi pochi fogli di carte misere all’apparenza, ma dentro ricchissimi di contenuti, di idee straordinarie. Poi a seguire affrontammo il carteggio delle lettere, i testi scritti da Paolo e quelli a lui dedicati dagli studiosi, la rassegna stampa, il materiale fotografico, le locandine, tutta quella documentazione che costituisce il corpus sul quale impostare un serio lavoro di ricerca. Da non dimenticare il restauro delle opere o la loro ricostruzione (come l’ambiente Intercamera plastica) nel caso in cui queste fossero andate distrutte, molto coaudiuvata, in questo delicato impegno, da mia figlia Cosima; l’inserimento in mostre internazionali di prestigio e, con grande orgoglio, le cinque tesi di laurea — cinque 110 cum laude — di cinque straordinari ragazzi della nostra Università e la tesi di dottorato di Ilaria Bignotti con Angela Vettese quale tutor; nell’ampio ventaglio delle sue ricerche l’individuazione di quel fil rouge che le univa e al tempo stesso le differenziava.
Così siamo arrivati all’oggi e alla domanda che mi poni: a chi il merito di tutto questo? Certamente qualche cosa credo in coscienza di avere fatto, aiutata da tantissime persone alle quali va il mio grazie di cuore, ma qui per ricordarle tutte come vorrei non basterebbe un intero supplemento di Flash Art.
Ne scelgo una per tutte: sta in Cielo e da 44 anni ogni giorno mi indica dove andare.
GP: Oltre a te, chi sono gli altri i componenti dell’Associazione Paolo Scheggi?
FSDA: Il nostro è un piccolo gruppo guidato in qualità di Responsabile scientifico da Luca Massimo Barbero. Lui è un maestro molto severo ed esigente, capace all’occorrenza di rompere le nostre resistenze e con una splendida operazione di maieutica trarre da ognuno di noi il nostro meglio. Vivere con lui alla mia giovane età di 73 anni questa esperienza è ogni volta per me fonte di stupore e di grandissima gioia. E poi abbiamo tutti un gran senso dello humour che lavorando aiuta moltissimo.
GP: Quali sono i prossimi grandi progetti espositivi in Italia e all’estero?
FSDA: Innanzitutto mi preme ricordare che stiamo alacremente lavorando al Catalogo ragionato dell’opera di Paolo Scheggi, un lavoro di grande impegno per il suo curatore, Luca Massimo Barbero, e per la nostra giovane Associazione, catalogo che si completa di due testi oltre a quello di Barbero a firma di Ilaria Bignotti e di Francesca Pola.
Venendo invece ai prossimi progetti espositivi, questi sono ormai dietro l’angolo. Alla prossima manifestazione di ArtBasel la Galleria Tornabuoni Art presenterà un prezioso progetto espositivo dedicato a Scheggi. Qui Luca Massimo Barbero ripresenterà, ripercorrendone la storia, la parete della Biennale di Venezia del 1966: quattro “Intersuperfici”, una bianca, una rossa, una blu, una gialla. Storia travagliata, quella delle opere di Paolo per quella Biennale, in quanto tre di queste furono da subito rintracciate, mentre la Intersuperficie curva gialla sembrava essersi dissolta nel nulla. Ma come poteva un’opera così sparire senza lasciare traccia? Vi furono momenti nei quali mi sentivo Indiana Jones alla ricerca dell’Arca perduta. Ma siccome la goccia d’acqua corrode la pietra… due anni fa l’ho ritrovata. Sempre ad ArtBasel sarà inoltre proposto un talk dedicato a Paolo Scheggi nella scena milanese degli anni Sessanta, grazie al dialogo tra Luca Massimo Barbero e Bernard Blistène: una grande emozione, non solo per me. Poi, dulcis in fundo, in autunno a Parigi, sempre con Michele Casamonti, ormai contagiato da quella che Luigi Koelliker chiama l’epidemia della “scheggite acuta”, una mostra sulla ricerca condotta da Paolo sulla parola, il linguaggio, gli alfabeti. Luca Massimo Barbero con quel suo dono tutto speciale ci condurrà nel cuore di un nuovo percorso, ignoto ai più e mai affrontato criticamente, prima, per scoprire di Scheggi e forse anche di noi stessi profondità inesplorate, nuove spazialità e sonorità compositive, nuovi campi di luce. Perché, come diceva ironicamente ma non troppo l’amico e musicista Giuseppe Chiari, “io non credo che Scheggi sia quello dei fori”.