Storia di un naso
Tutti parlano della bella vita, del gozzovigliare e dei party non-stop di Venezia. Adoro toccare le antenne della tribù dell’arte. Ma credo che il mio ultimo “contatto” sia avvenuto alle 9,45 di sera, mentre tornavo verso il mio hotel e incontravo decine di persone di mia conoscenza che andavano a qualche altro evento. Tutti si fermavano esclamando: “Sono appena stato a un party infernale”. Mi diverte il modo in cui il mondo dell’arte ama l’inferno.
Per tutto il tempo che ho trascorso in laguna, sono stato meravigliato dalle storie che ascoltavo e dalle fotografie che vedevo sui blog il giorno dopo. Party enormi, celebrità che non sapevo nemmeno fossero a Venezia, star dell’arte che si accompagnano a oligarchi, giovani artisti traghettati in giro dai taxi privati dei collezionisti, il mondo dell’arte agglomerato in palazzi e hotel di lusso, che grida sempre a squarciagola per farsi ascoltare mentre parla dell’“importante dj” di turno che ha fatto arrivare su un volo di prima classe. Ma le baldorie di una notte sono tutto questo. Ed è tutto bellissimo — anche se mi sono perso le cose migliori, e sono finito nella mia camera d’albergo, che a suo modo, va bene lo stesso. Di tutte le storie che ho sentito sui party peggiori, la confusione dei posti riservati, i fallimenti dei rapporti sociali, i buttafuori nei bar, le storie tristi sulla mancanza di wi-fi, la più tipica, piratesca e bohémien è quella della straordinaria mercante d’arte Michele Maccarone. Nella prima sera di tripudio, ho incontrato la Maccarone mentre tornavo a casa, e lei stava chiaramente raggiungendo un altro posto. Le ho chiesto perché indossasse occhiali così scuri a quell’ora di notte.
Mi ha guardato per un secondo in silenzio, poi è scoppiata a ridere e ha detto: “Ok, vuoi proprio saperlo?” Ho risposto: “Sì, non lo dirò a nessuno”. (Anche se poi mi ha gentilmente dato il permesso di riferirlo). Si è tolta gli occhiali. Il suo setto nasale era spaccato. Mi ha raccontato che cosa era successo. La settimana precedente stava aiutando i suoi artisti nell’installazione delle loro opere. (Praticamente come Shirley MacLaine in Voglia di Tenerezza, chiedendo aiuto, urlando, per i suoi artisti). In breve: una notte, intorno alle 3,30, brilla e stanca, stava tornando da chissà dove. Era lontana dal suo appartamento, e doveva fare la pipì. Quindi, si è acquattata sul ciglio di un canale e ci è caduta dentro, rompendosi il naso. Mentre mi raccontava di come l’hanno trovata due Carabinieri, di come l’hanno aiutata a tirasi su le mutandine e portata in ospedale, rideva. E anch’io.
L’orrendo americano
“Questo mi fa vergognare di essere americano”, mi ha brontolato il mega-curatore di un grande museo americano.
Ero di fronte a uno spettacolo di proporzioni americane. Davanti al padiglione degli Stati Uniti all’interno dei meravigliosi Giardini, area principale della Biennale di Venezia, gli artisti Jennifer Allora e Guillelmo Calzadilla hanno piazzato un carro armato di 60 tonnellate. Si tratta di un carro armato vero, spedito dall’Inghilterra a chissà quale prezzo. È in posizione capovolta, la torretta e la canna da fucile sono sul suolo, i battistrada metallici rivolti al cielo. In cima a questa torta nuziale del Signore della guerra, i due hanno installato un tapis roulant, dove un corridore professionista corre per 15 minuti ogni ora. Un centro fitness infernale, l’Afghanistan a Venezia, che produce un gran baccano per tutti i Giardini. Mi sono voltato verso il curatore e ho detto: “Credo che parte dello scopo dell’opera sia provare imbarazzo per essere americani”.
L’opera sembrava infatti dicesse: “Noi americani facciamo tutto questo baccano, mostriamo la nostra potenza, imponiamo sul mondo la nostra forza militare, intratteniamo noi stessi e chiunque ci guardi, siamo grandiosi, sciocchi e bisognosi e tutto ciò di cui abbiamo bisogno è essere in forma”. (La struttura piramidale ha infatti un corridore sulla cima, laddove un’altra cultura posizionerebbe una figura vittoriosa alata, o un gargoyle). A ogni modo, questa torre di Babele totemica e monumentale, anche se ripugnante, ostentata, clamorosa e volgare nelle sue implicazioni, è anche, come spesso lo è l’arte, stranamente sorprendente.
Allora e Calzadilla hanno trovato il modo di incapsulare, di esorcizzare e di dare una forma concreta al modo irrazionale in cui gli Stati Uniti sono percepiti dal mondo. L’opera ruota attorno all’idea che le persone hanno prima di mettere piede nel padiglione Stati Uniti (allo stesso modo in cui noi americani abbiamo preconcetti prima di entrare nei padiglioni della Germania, della Francia, della Corea o di altri paesi). Questo è un aspetto sempre presente ma invisibile, che deriva dai retaggi dei secoli passati, o accumulati in poche decadi. Lasciando questo posto infernale, ho detto al curatore. “Beh, questa è l’America”.
Generazione Nulla
Le creazioni magnifiche, cerebrali, e fondamentalmente prive di contenuto dei giovani leoni dell’arte istruita.
Sono stato a Venezia, e sono tornato preoccupato. Ogni due anni, l’attrazione della Biennale è una specie di panoramica sullo stato dell’arte. La Biennale di quest’anno, intitolata “Illuminazioni”, ha la sua dose di momenti clou e intensità artistica. (Il video di Frances Stark che racconta una masturbazione online tra una donna e un uomo più giovane ha attirato la mia attenzione; The Clock di Christian Marclay, che quest’anno ha affascinato New York, ha vinto giustamente il Leone d’Oro come migliore artista). Eppure, tante volte — troppe — ho visto la stessa cosa, uno stile molto riconoscibile, istituzionale e generico. Il film Neo-strutturalista dai colori geometrici che si susseguono, fotografie su fotografie, proiettori che trasmettono frammenti di lungometraggi d’archivio in bianco e nero, un’astrazione che fa riferimento ad altre astrazioni — era tutto lì, direttamente dagli anni Settanta, tutto già visto. È un lavoro congelato in un cul-de-sac di regressione estetica, dove tutti destrutturano gli stessi elementi.
C’è sempre conformità nell’arte — le mode vanno e vengono — ma una devozione così ossessiva per gli ideali e le idee di una generazione precedente, è sbagliata, fa pensare che questi artisti siano in maniera eccessiva alla mercè dei loro predecessori, troppo appagati da un gioco dell’arte fatto di addetti ai lavori e, infine, che non producano il proprio lavoro. Stanno diventando una generazione perduta.
La nostra cultura odierna trasforma magnificamente e chimicamente storia e immagini in materiale artistico. Le possibilità sono infinite e aperte. Eppure questi artisti attingono, per le loro storie e immagini, soltanto a un pool genetico super limitato e molti elementi vengono utilizzati in maniera incompleta. In questo modo, l’arte diventa nient’altro che una lingua fatta di codici: i contenuti si svuotano e diventano uno strumento per evitare il caos interiore, una specie di dipendenza, e oggi ormai una formalità supportata da istituzioni e amata da curatori che non riescono a dimenticare i giorni di gloria.
Consideriamo i giovani artisti più acclamati a Venezia. Un’insegna sul muro ci comunica che i quadrati colorati sul pavimento di Ryan Gander derivano in parte da Mondrian. Ciò non solo rende il lavoro di Gander meno potente, ma lo protegge dal consumismo. Si tratta di un’arte che ha a che fare con la comprensione e non con l’esperienza. Gli assemblage specchianti di Rashid Johnson hanno una fisicità attraente ma sono penalizzati dal fatto che si basano sui ricordi familiari di un passato recente (al contrario della sua fonte di ispirazione, Carol Bove, le cui installazioni a Venezia di oggetti modernisti dischiudono inquietanti scorci sullo sguardo, gli ambienti e la memoria, Johnson usa gli oggetti come semplici supporti). I dipinti patinati di Seth Price, fatti con corde, sembrano un incrocio tra Martin Kippenberger e Marcel Broodthaers, una sorta di ready made per critici che amano analizzare minuziosamente gli “ismi” dei più vecchi. Si è venuta a creare una retroazione continua: l’arte diventa un gioco di nicchia, e muove gli stessi elementi attorno a un asse limitato. Tutto questo lavoro è molto competente, estremamente informato e supremamente cerebrale. Ma finisce per diventare parte di qualche scuola internazionale di maniera, di arte sciocca.
Il Meglio e il Peggio della Biennale
Alla mastodontica Biennale di Venezia, che si dirama per tutta la città, c’erano circa 90 Padiglioni, in cui ogni paese ha selezionato uno o più artisti invitandoli a esibire il proprio lavoro. Oltre a questi, molte mostre collaterali. Non ho visto tutto: sono stato a questa Woodstock dell’arte per quattro giorni, pagati da me, il che significa nessun taxi costoso che mi portasse a qualche mostra su qualche isola nella laguna. Anche se sono certo di essermi perso “l’unica cosa che valesse la pena vedere a Venezia” (come tutti all’aeroporto continuavano a dire mentre prendevo l’aereo di ritorno), ho visto alcune cose incantevoli, altre rivoltanti, e qualche via di mezzo. Ecco i miei cinque padiglioni preferiti, e i tre che invece ho amato di meno.
Un eccezionale debutto internazionale:
Adrian Villar Rojas (Argentina)
Un esordio sorprendente. Il giovane artista ha creato una serie di colonne archeologiche gigantesche che sembrano provenire da un futuro lontanissimo; tra 10 milioni di anni potrebbero essere le ultime sculture rimaste sulla terra. Il modo in cui sono costruite, che le rendono simili a fango e fanno sembrare piccolo tutto il resto, la sua immaginazione, le proporzioni e la sua idea di una storia che si evolve senza controllo, tutto questo mi rende impaziente di vedere i prossimi lavori di questo trentunenne.
Una passeggiata nel paese delle meraviglie:
Karla Black (Scozia)
Un’installazione dominata da forme color pastello, composte da sapone, carta, argilla mista a vaselina e polvere di marmo veneziano. La sporcizia sul pavimento crea dei percorsi. Si lascia la mostra con la sensazione di un’artista che controlla dolcemente il suo tocco delicato, e anche se stessa.
Meglio di così non si può…per ora:
Mike Nelson (Gran Bretagna)
Un’installazione enorme, labirintica, suddivisa in stanze, l’unione tra la working class di Istanbul e la camera oscura di un fotografo pazzo. L’Iperrealismo di Nelson non rappresenta il mio gusto — secondo me le sue opere sono scenografie folli — ma ha entusiasmato la gente, accompagnandola in una specie di viaggio nei meandri dell’Orientalismo della Mente. Quindi in questo caso mi inchino, senza pentimenti, al parere della gente.
L’eccesso avvolgente unito a un’arte di buon livello:
Thomas Hirschhorn (Svizzera)
L’installazione affollata, che usa ogni forza e riempie tutto l’edificio, presenta manichini, carta stagnola, immagini macabre di guerra e bottiglie rotte. È un vero e proprio eccesso, è la fortezza di un favolista fatta di vergogna, solitudine, furia, determinazione e ambizione artistico-politica. È il mio preferito, anche quando si allontana dal didattico e si ritrova sopra le righe.
Una nuova finestra sulla mente:
Yael Bartana (Polonia)
I tre video in questo Padiglione si basano sulla premessa che gli ebrei di tutto il modo abbiano il diritto di tornare in Polonia, dove potrebbero insediarsi. I video sono di stampo troppo patinato, e anche troppo lunghi. Ma l’idea si imprime nella mente, anche se è un’idea che causerebbe un’altra guerra mondiale.
Brutto, ma come sempre amato dai professionisti:
Christian Boltanski (Francia)
Un pomposo congegno, la macchina tipografica di Christian Boltanski gira a gran velocità, producendo fotografie di neonati in bianco e nero: è il Festivalismo al suo massimo livello di superbia, insipidezza, inutilità, ovvero un’arte creata appositamente per eventi come questo e niente di più. Rimango sempre perplesso nel vedere quanto Boltanski sia amato dai curatori. Ovviamente a Venezia mi sono imbattuto in un paio di mega-curatori (un ex curatore di documenta, e il direttore di un grande museo londinese), che mi hanno detto: “Bello Boltanski, vero?”. Ho risposto: “Per vent’anni voi due avete cercato di convincermi che Boltanski è un grande. Non lo è”.
La vendetta di un cattivo curatore:
Vittorio Sgarbi (Italia)
Ancora peggio dell’arte meramente brutta di Boltanski, ci sono la malevola cattiva fede e l’arrogante avversione verso l’arte di Vittorio Sgarbi, in quella che è la più brutta mostra di arte contemporanea che abbia mai visto. ArtInfo descrive Sgarbi come un politico, uno scrittore, un collezionista, il “Glenn Beck del mondo dell’arte italiana”, e c’è davvero una sorta di pazzia paranoica in questo spazio. Il Padiglione è un affronto visivo, sovraccarico, installato sulle pareti e su strutture curve con ripiani. Siamo di fronte al kitsch accademico, fatto di dipinti con brutte figure e tutto ciò che un curatore potrebbe definire anti-avanguardia. Le scelte reazionarie sono sempre esistite, ma qui di tratta di straordinaria bruttezza. Il New York Times, in una recensione (che ho poi scoperto essere di mia moglie), ha definito la mostra “insalvabile”, uno “scandalo nazionale”. C’è qualche cosa di buono in questa specie di audizione per dilettanti? Forse solo il fatto che non potrà essere superata facilmente.
Grazie per i ricordi, ma è finita:
Jennifer Allora e Guillermo Calzadilla (America)
Ho già scritto di come questo duo artistico super-cool sia stato in grado di creare l’essenza dell’“orrore americano” con il carro armato e il tapis roulant. Se fossi stato io il curatore avrei cercato di fermarli lì, perché tutto ciò che hanno creato all’interno del loro Padiglione è scontato, ridondante, sciocco. La prima opera (Armed Freedom) è una replica della statua bronzea della libertà che dal 1863 sta in cima al Campidoglio; qui però la statua è dipinta di nero e lunga più di due metri, ed è supina, su un lettino abbronzante. Forse destinata a evocare il funerale di stato di un presidente, è talmente pedante, smorta e semplicistica che credo che non sia nemmeno arte. Più avanti, alcuni atleti olimpici professionisti si esibiscono su repliche in legno di sedili della business class di un aereo; alla fine, tutto è inutile e orribile. Lo spettacolo fornito dal gran fracasso del carro armato all’esterno è già abbastanza. Sarà pazzescamente ovvio, e sarà l’oggetto più costoso che ci si può immaginare di trasportare a Venezia; ma essendo l’atto nazionale più riprovevole mai visto in Biennale — e che permette all’arte americana di espandersi e colonizzare lo spazio esterno dell’edificio — riesce a essere una metafora odiosa per le nostre guerre recenti, e per la Freedom Agenda americana. L’unica cosa che potrebbe risultare ancora più odiosa (secondo il mio modo di pensare ebraico), sarebbe che gli artisti del Padiglione israeliano si insediassero lì accanto. E potrebbero anche rifiutarsi di sloggiare, citando qualche testo antico.