Maurizio Cattelan: Ciao Peter, sono contento di avere l’opportunità di parlare con te e sono curioso di sapere cosa pensi della tua arte e, in generale, dell’arte. Confrontandoci, spero proprio che potremo capire meglio cosa stiamo facendo e come funziona. Cominciamo? In che modo ti approcci al tuo lavoro?
Peter Coffin: C’è la tendenza a confondere le carte, a cercare di convincere la gente che qualcosa sia arte, quando invece è solamente necessario mostrarla e lasciarla lì, da sola. Sono convinto che la cosa più difficile sia comunicare un’idea in modo assolutamente diretto. Se non mi sbaglio è stato Jasper Johns a dire: “A volte è necessario specificare l’ovvietà”. Comunque, il modo in cui si procede è un mistero. Ricordo che a un certo punto ho pensato che avrei capito come realizzare, come creare l’arte — della serie “ehi gente, cosa si fa in questi casi?” — e, di conseguenza, non avrei avuto più bisogno di lottare. Però poi mi sono accorto che non avrei mai seguito un determinato procedimento, avrei dovuto inventarlo e reinventarlo in continuazione, il che è veramente deprimente.
MC: E ora che hai capito qual è il tuo procedimento, hai idea di cosa diventerai?
PC: Se fai “mezzo” passo indietro, diventi un osservatore e basta. Il lavoro non ti dà nessuna risposta, al contrario ti pone delle domande, ed è importante. Se hai una buona domanda hai anche la risposta.
MC: Allora diciamo che tu sei un’idea e sei coinvolto in idee astratte.
PC: L’astrazione è come un volo, libero dalle costrizioni spazio-temporali del momento; libero di pianificare il futuro, di rifarsi al passato e di comprendere il presente da una prospettiva che contempla tutti e tre questi aspetti; e ancora, libero dai vincoli della soggettività concreta, di immaginare ciò che è possibile e come entrarvi; di esaminare il dato reale in quanto risorsa per incarnare nuovamente ciò che è possibile; libero di affrancare l’oggetto da se stesso perché inteso sempre più come un’entità auto-contenuta, pienamente determinata dalle sue caratteristiche e relazioni contestuali, e di riconsiderarlo da lontano come la cosa giusta al momento giusto. L’astrazione è un viaggio solitario attraverso l’universo concettuale.
MC: Che tipo di arte vuoi realizzare?
PC: Sono per un’arte politico-erotico-mistica, che non dorme sugli allori.
MC: Per esempio?
PC: Più ci penso, più sono convinto che non ci sia nulla di più profondamente artistico dell’amare la gente.
MC: Dunque è questo quello a cui stai lavorando ora?
PC: Durante le feste, la gente spesso chiede agli artisti “A cosa stai lavorando?”. E io a volte rispondo “A una scultura fisica”, e loro potrebbero ribattere “Cosa vuol dire?”, e io “Vedrai”.
MC: È così che funziona? Le idee si palesano spontaneamente o, quando te lo chiedono, non sempre sai che cosa farai?
PC: C’è qualcosa di misterioso in questo processo che non voglio nemmeno capire.
MC: Tu mescoli intenzionalmente il lavoro con cose che sembrano essere “là fuori” e a cui la gente vuole credere e capire, ma che non sono dimostrabili. Sto pensando alla cosiddetta “scienza di confine” e alle teorie New Age: cose della serie “musica per piante”, l’interesse per gli UFO, la mappatura dei pensieri ecc. Nel seguire questo genere di interessi, dove si va a finire?
PC: Fuoriuscendo parzialmente da se stessi, interagendo con altro da noi. Sono sempre stato attratto dagli UFO. Penso che la nostra realtà sia sempre più ricca di quanto appaia e, sì, molto più bizzarra. Ho immaginato cosa avrei voluto realizzare se fossi arrivato da un altro mondo; se la forma è un linguaggio visivo, cosa vorrei dire?
MC: Mi interessa questo discorso sull’opera d’arte teorica. Che forma dovrebbe prendere?
PC: Be’, considero l’arte la forma più ragionata, perché ciò con cui abbiamo a che fare è in realtà il nostro livello di coscienza e la configurazione della nostra percezione. L’atto artistico è uno strumento per una coscienza matura.
MC: Comunque tutto ciò mi fa riflettere sul tipo di arte che dovremmo creare e sul come farla.
PC: Prima di affrontare questo tema che rimane uno dei più scottanti e dei più urgenti, dovremmo riflettere sul modo in cui si deve pensare, perché è un’attività pura… l’inizio dell’Essere.
MC: Che vuol dire che vuoi considerare il modo in cui si pensa? Mi dici qualcosa in più? In sintesi, come si pensa è importante per cosa si pensa?
PC: La verità è che la capacità che ha l’uomo di mercificare il simbolo in generale e il linguaggio in particolare è così intimamente legata al suo essere, al suo perseguire e conoscere, al suo più profondo livello di coscienza, che è del tutto impossibile per lui focalizzarsi sulla sfera di vetro con cui legge la realtà esterna. Tutto ciò potrebbe accadere se fosse un marziano, o un terrestre sufficientemente distaccato… e così fortunato da trasformarsi in un marziano per un secondo, acquisendone la prospettiva.
MC: Quindi dovremmo essere consapevoli della nostra prospettiva e del nostro stato d’animo, compresa l’influenza del linguaggio sul nostro pensiero. E questo è un atteggiamento positivo per uno stato d’animo maggiormente disponibile a trasmettere e catalizzare i vari significati. Dopo tutto, siamo qui per condividere le idee.
PC: Con tutti questi fenomeni paranormali così evidenti e questo genere di cose, dovrebbe esserci un muscolo sviluppato tanto quanto gli altri, cosicchè un giorno un artista potrebbe decidere di esporre semplicemente il proprio cervello davanti alla gente per rappresentare se stesso. Non essendo capaci di farlo, sento che c’è un modo diverso di comunicare da una testa a un’altra. Per me era un espediente per svicolare dal mio stesso sentire, assumendo un principio con cui mi confrontavo, veicolandolo attraverso qualcun altro.
MC: Allora qual è secondo te l’approccio razionale che dovrebbero avere gli artisti?
PC: Gli artisti concettuali sono mistici piuttosto che razionalisti; saltano a delle conclusioni estranee alla logica. I giudizi irrazionali portano a nuove esperienze e il pensiero irrazionale dovrebbe essere perseguito in modo assoluto e logico.
MC: Come?
PC: L’opera d’arte potrebbe essere percepita come veicolo che va dalla testa dell’artista a quella dello spettatore, ma non verrà mai percepito da quest’ultimo nella sua interezza né abbandonerà mai la mente di chi l’ha creato.
MC: Che tipo di arte assicura oggigiorno il miglior veicolo?
PC: Metà o più dell’arte più interessante che ho prodotto in questi anni non era né scultura né pittura.
MC: Ma in questo modo non se ne esclude troppa?
PC: Quando si utilizzano termini quali pittura e scultura, si connota un’intera tradizione e se ne implica la sua conseguente accettazione, così si impongono delle limitazioni a quegli artisti che sono riluttanti a lavorare con certe restrizioni. Il successo artistico, infatti, cambia il nostro modo di comprendere le convenzioni alterando le percezioni che sono comunque soggettive.
MC: Quindi dovremmo sfidare le convenzioni artistiche esistenti che limitano il modo in cui pensiamo e facciamo arte; di conseguenza cosa credi sia importante oggi per il lavoro di un artista?
PC: Il “valore” di certi artisti dopo Duchamp potrebbe essere calcolato su quanto si sono interrogati sulla natura dell’arte, che è un altro modo per specificare “che cosa hanno aggiunto al concetto d’arte” o cosa esisteva prima di loro. Gli artisti interrogano la natura dell’arte presentando nuovi progetti e basandosi sulla natura dell’arte stessa. E per farlo non ci si può preoccupare del linguaggio tramandato dall’arte tradizionale, dato che questa attività si fonda sul concetto che esiste solo un modo di inquadrare i progetti artistici, anche se la cosa più importante è creare nuove proposte. Ma, dato che non esiste la verità, è abbastanza difficile definire che cosa sia l’arte.
MC: L’espressione “ragione dell’arte” cosa ci suggerisce sulla “verità” e come dovrebbero essere i “veri artisti”?
PC: Dovresti essere il messaggero delle libertà… Non dovresti sapere esattamente cosa fai, ma dovresti farlo e basta.
MC: E dunque cosa dovremmo fare?
PC: Dovresti lottare contro il conformismo, reinventarti la vita, amare, afferrare l’anima, restituire qualcosa; dovresti essere propositivo.
MC: Veramente?
PC: Beh, diciamo che non sono proprio d’accordo con tutto quello che dico.
MC: Ok, allora qual è un buon metodo di lavoro?
PC: Fare una cosa alla volta, capire il problema, imparare a imparare, imparare a chiedere, accettare che i cambiamenti sono inevitabili e che si commettono errori, dirlo con semplicità, essere calmi e sorridere.
MC: Tu lavori così?
PC: Mi piace pensare che anche se dormo o sono sveglio, il lavoro va avanti in tutta la sua complessità.
MC: Fai sembrare tutto molto facile.
PC: Beh, l’ispirazione esiste, ma deve trovarti mentre lavori.
MC: Allora tu produci arte sia quando dormi sia quando sei sveglio?
PC: A volte penso a sei cose impossibili prima di colazione.
MC: Da dove trai ispirazione? C’è un luogo particolare in cui scavi?
PC: L’inconscio deve essere esplorato a fondo perché è l’unico posto in cui puoi trovare come per magia la verità gratuitamente, notte dopo notte: il tempo dei sogni è fondamentale.
MC: Che tipo di idee vanno bene per l’arte secondo te?
PC: Non devono essere idee complesse, infatti quelle di maggior successo sono ridicolamente semplici. E l’artista in questo caso specifico è libero di sorprendere anche se stesso.
MC: Hai uno stile artistico?
PC: Mi interessano le idee, non i prodotti meramente visivi. Mi forzo di contraddirmi in modo da evitare di conformarmi al mio gusto.
MC: Che cosa non è la tua arte?
PC: Tutto quello che so ma a cui non penso al momento.
MC: Invece, cos’è la tua arte?
PC: Qualcosa che sta prendendo forma nel mio pensiero e a un certo punto viene a galla. Qualcosa che ancora non conosco, ma che lavora sopra di me. Qualcosa di cui un tempo ero consapevole, ma che ora ho dimenticato. Qualcosa che mi sta cercando e ha bisogno di rivelarsi.
MC: Hai detto che sei interessato a ciò che non comprendi.
PC: Alcuni dei miei lavori sono fatti di pensieri dimenticati; inoltre utilizzo cose che non sono comunicabili né conosciute, almeno non ancora.
MC: Quali qualità ritieni significative nell’arte e quali ti interessano?
PC: I confini dell’arte non sono definiti, riguardano anche altri ambiti, dai quali a sua volta ne è influenzata. Qualcosa può a sua volta essere parte di qualcos’altro — qualcosa appare familiare, oppure strana, e conoscerla modifica la percezione che abbiamo di essa.
MC: Mi incuriosisce il titolo della tua recente mostra “The Idea of the Sun” (L’idea del Sole, ndt), anche se mi hai detto che non ha a che vedere con il Sole in sé, ma con il Sole in quanto “risorsa”.
PC: Il Sole, con tutti i pianeti che gli ruotano intorno, e da cui dipendono, può ancora far maturare un grappolo d’uva sebbene non abbia alcun motivo di esistere nell’Universo.
MC: Dunque è impegnato con noi come noi in un certo senso lo siamo con lui? Tutto ciò sembrerebbe avere a che fare con una sorta di fiducia in quel processo inconscio dell’arte a cui alludi — una specie di concentrazione o connessione che non si può misurare con lo sforzo ma che ti ha “trovato mentre lavori”, come hai detto prima. Mi chiedo se sia collegato al tuo interesse per il gioco e, se sì, in che modo?
PC: Giocare non fa parte di una vita ordinaria, è un modo per allungare il passo… all’interno di un’attività temporanea con una disposizione tutta personale. Il che non significa che si va avanti senza serietà, coinvolgimento e devozione: la differenza fra il gioco e la serietà è sempre “fluida”.
MC: Potresti spiegarci meglio questo concetto riferito all’arte?
PC: Per quanto riguarda l’arte, noi sappiamo come concentrarci sul lavoro in modo specifico, e quando lo facciamo non si genera tedio, e più lo facciamo, più il lavoro si mostra in tutte le sue molteplicità e sfaccettature. E forse è l’unico modo concesso a noi esseri completamente finiti di relazionarci con ciò che chiamiamo eternità.
MC: Dimmi che cosa tutto ciò ha a che vedere con l’arte?
PC: Le nostre menti sono finite, ma anche in queste condizioni di finitezza siamo circondati da possibilità infinite, e lo scopo principale della vita umana è di comprendere quanto più possibile siamo in grado di uscire da quella infinitezza.
MC: E così ci estendiamo alle cose e alle idee che sono fuori dalla nostra portata, che può essere anche il grappolo d’uva disposto a ricevere i raggi del Sole e, a suo modo, disposto a raggiungerlo. Tutto ciò mi fa pensare che questa connessione non è così diretta come ci si aspettiamo quando dobbiamo cercare di cogliere qualcosa lontano da noi.
PC: Forse è come quando si prova a vedere una stella a occhio nudo; distogliendo appena un po’ lo sguardo dalla stella, in realtà la si vede più chiaramente.
MC: È consciamente rilevante per il tuo lavoro ed è il metodo che utilizzi per la tua pratica artistica?
PC: Il metodo è la forma esterna della coscienza che si manifesta negli atti e ne assume la proprietà fondamentale, ovvero la sua intenzionalità. L’essenza della coscienza sta con il mondo; di conseguenza, è una “strada verso” qualcosa di separato da se stesso, che la circonda e di cui se ne apprende il significato grazie alla sua capacità ideativa. La coscienza è quindi per definizione un metodo, nel senso più generale del termine.
MC: Parli delle idee come se vivessero dentro di te o agissero indipendentemente da te. Ti sento canticchiare qualche volta mentre lavori e mi chiedo, per esempio, se percepisci la melodia che crei. È l’idea che vive dentro di te che si esprime come una melodia quando la lasci fuoriuscire?
PC: Non è semplice. I mugulii non sono suoni che ti appartengono, al contrario ti posseggono, e tutto quello che puoi fare è andare dove ti possono trovare.
MC: Voglio approfondire il concetto che le idee hanno una vita propria. Dove e come vivono, e a che punto siamo ora con loro?
PC: Penso che esista un’immagine del pensiero che cambia molto e che ha cambiato gran parte della Storia. Con immagine del pensiero non intendo il suo metodo ma qualcosa di più profondo che viene sempre dato per scontato, un sistema di coordinate, dinamiche, orientamenti, in sintesi, cosa vuol dire pensare e orientarsi nel pensiero. Comunque lo si intenda, siamo sul piano dell’immanenza; ma il pensiero dovrebbe circolare erigendo pareti verticali, cercando di stare in piedi diritto o, piuttosto, allungarsi e correre lungo l’orizzonte, continuando ulteriormente a spingere verso l’esterno il piano dell’immanenza? E che tipo di verticalità vogliamo? Qualcosa che ci dia la possibilità di contemplare o di riflettere, oppure di comunicare? O ancora, dovremmo semplicemente sbarazzarci di tutte le verticalità in quanto trascendenti, sdraiarci e abbracciare la terra, senza guardare, senza riflettere, tagliati fuori dalla comunicazione?
MC: Stai descrivendo una sorta di campo condiviso in cui i pensieri e la conseguente richiesta di informazioni coesistono? È una specie di “livello dell’immanenza”, come hai detto in precedenza, in cui, per esempio, le idee vengono caratterizzate dalla loro posizione e dalla loro direzione?
PC: Avverto che c’è una sorta di dialogo sull’immanenza, alcune domande diventano pressanti e potenzialmente vi si può rispondere a un certo punto e in un certo lasso di tempo. Inoltre, coloro i quali pongono alcuni interrogativi a un fisico, un filosofo o a un artista sono essenzialmente coinvolti nelle stesse domande.
MC: Dunque, pensi che queste domande siano basilari per la tua pratica artistica. Ho la sensazione che per te siano addirittura più importanti delle risposte.
PC: La cosa che veramente mi ha colpito di più nello sviluppare il mio interesse per le domande è che ci adattiamo a esse per l’esatto contrario, in quanto veicolo culturale. Una volta che la domanda tocca determinati punti, la performance è in qualche modo inevitabile, diventa un’operazione di rastrellamento, una mera questione di tempo. Ora, io non sono contro la performance, ma trovo molto precario da un punto di vista culturale essere semplicemente in grado di soppesare la performance e di non essere in grado di dare credito alle domande di per sé.
MC: Ciò rimanda alla tua definizione di arte come alternativa fondamentale al pensiero razionale, che noi crediamo in modo ordinario, e per lo più automaticamente, sia la struttura in cui dobbiamo muoverci quando ci viene posta una domanda.
PC: Il ragionamento appare più confuso, casuale, in parte per il livello con cui ha a che fare. La logica, in un certo senso, sembra migliore perché esclude il processo di bilanciamento. Infatti, è ciò che la rende logica, si appropria di una visione particolarmente sottile e ne viene definita, o ridefinita, dalla deduzione di questa visione, ma non si riferisce mai all’intera complessità della situazione, ma solo ai confini all’interno dei quali si muove. In questo modo appare molto più chiara.
Comunque l’artista, in quanto essere pensante, si confronta con tutta la complessità di cui i sottoinsiemi logici rappresentano dei meri segmenti, oltre che con il lato intuitivo del suo potenziale umano: e in questo caso l’inconsistenza è significativa tanto quanto la consistenza. Il concetto di civiltà che sia tu sia io sperimentiamo fonda la maggior delle sue decisioni critiche sulla logica. Penso che probabilmente centocinquant’anni fa l’arte cominciava ad abbandonare questo concetto e iniziava a essere meno logica. Ma nonostante proceda logicamente, esistono domande a cui non si può rispondere logicamente. Ora, se a un certo punto guardiamo al mondo e capiamo che non tutto è classificabile o risolvibile con la logica, dobbiamo iniziare a sviluppare un’idea in antitesi, così da comprendere meglio ciò che l’arte contemporanea rappresenta nella nostra cultura: un’antitesi.