Ha un nome, ma non è quello originario. Ha una voce ma l’ha presa in prestito da un essere umano. Ha una forma che somiglia a quella umana, ma il suo corpo è diverso dal nostro. Parla, prova a definire se stessa e racconta la sua storia. Ripete di dire il vero. Donna senza qualità e senza carattere, il suo destino è quello di incarnare qualsiasi forma di psichismo antropomorfo. Non ha una storia particolare, ma proprio per questo può abbracciarle tutte, senza poterne mai sopravvivere a nessuna. Annlee, la creatura di No Ghost Just A Shell è uno degli apici dell’arte di Philippe Parreno. La si è troppo spesso ridotta alla procedura con cui l’artista ha costruito l’opera: nel 1999, assieme a Pierre Huyghe, Parreno ha acquistato il personaggio tratto da un manga dalla compagnia giapponese Kworks per una somma molto bassa chiedendo poi a diciotto artisti di “animarlo”. Eppure non è né la costruzione di una piattaforma di creazione collettiva né l’utilizzo di un ready-made che fa di quest’opera una delle più emblematiche di Parreno. Si tratta innanzitutto di una sorta di matrice per molte delle opere successive come Marylin (2012), The Writer (2007) o Anywhen (2017). In tutte queste opere, Parreno rovescia il paradigma tradizionale dell’opera d’arte: fare un’esperienza estetica non significa trovarsi di fronte a un oggetto che suscita nel soggetto che lo contempla il libero accordo tra i sensi e la ragione. L’opera d’arte è l’incontro con una soggettività alternativa, per almeno tre ragioni: si tratta di un secondo io, numericamente distinto dal primo, che esiste davanti allo spettatore; si tratta di un io diverso perché non dotato di forma puramente umana; e si tratta di un io ‘alieno’, perché vive «all’esterno del mondo, non importa dove, ma fuori dal mondo». Questa soggettivazione dell’opera non è ravvisabile solo nei video, ma anche e soprattutto nelle mostre, che si presentano sempre più come degli automi, dotati di un cervello o di un centro decisionale in cui il movimento e la coordinazione dell’insieme è delegato a degli organismi viventi.
Se per secoli l’arte è stato il laboratorio in cui il soggetto moderno faceva esperienza della propria potenza di modificazione del reale (simile a quella della divinità1) e della propria libertà (paradigma di quanto la democrazia moderna avrebbe riconosciuto ai suoi cittadini), Parreno fa dell’arte l’esperienza dei modi di esistenza dell’io al di là delle forme e dei luoghi che l’anatomia umana e le sue potenze possono conferirgli. Da questo punto di vista No Ghost Just A Shell è una sorta di trattato di estetica in cui l’io dell’opera d’arte descrive se stesso, la sua storia, la sua strana ontologia. I risultati di questa auto-analisi sono stupefacenti e radicali. Innanzitutto, quanto è stata per secoli ridotta a mera apparenza si rivela essere un soggetto: le immagini sono personaggi immaginari, «capace di integrarsi in qualsiasi storia», prodotte per essere animate. Da questo punto di vista l’arte di Parreno conferma e radicalizza una diagnosi di Alfred Gell: il mondo dell’arte è la sfera in cui nelle culture occidentali l’animismo è tollerato, è l’insieme di luoghi e situazioni in cui ci rapportiamo a degli oggetti e a certa materia (pezzi di lino e pigmenti, bronzo, legno, carta, cemento ecc) come se fossero incarnazioni di una soggettività – e manifestiamo nei loro confronti lo stesso culto che prestiamo agli individui. Ma il soggetto incontrato attraverso l’arte era sempre e solo quello dell’artista, come se l’io dell’opera d’arte fosse costretto a divenire il suo ventriloquo, il suo mimo: l’arte era il teatro in cui la materia era costretta a diventare attrice, personaggio di una drammaturgia già scritta. L’arte di Parreno libera l’animismo di cui l’arte è capace dal narcisismo dell’artista: No Ghost Just A Shell è assieme innanzitutto la rivendicazione dell’autonomia psicologica dell’io dell’opera rispetto al suo creatore, un affermazione del suo essere alieno, e la rivelazione della sostanza più profonda dell’io, della natura più aliena dello psichismo. La sua autonomia, infatti, non è solo caratteriale o drammaturgica, è ontologica.
Abbiamo bisogno dell’arte e del suo animismo perché ci costringe a ripensare tutto quello che abbiamo da sempre immaginato sullo psichismo e sulla psicologia umana.
Annelee non è un androide, non è puramente antropomorfa. A essere umana è la sua apparenza ma non quanto le permette di dire io – né l’io che si esprime attraverso di lei. È un nucleo puro di psicologia non-umana. La soggettività dell’opera d’arte non è più costretta a riflettere l’artista nemmeno nella sua umanità affettiva. Trovarsi di fronte a un’opera d’arte significa quindi fare l’esperienza di un’alienazione psicologica. Questo accade perché l’io che l’opera d’arte libera ha la natura di una merce (« sono stata acquistata per 46000 yen, 400 Dollari americani, pagati a compagnia di design di personaggi, K works »): non si oppone all’alienazione, ma vive di essa. L’essere merce, difatti, non lega l’io a una proprietà ma al contrario la libera da qualsiasi appartenenza («sono stata comprata ma stranamente non appartengo a nessuno»).
i tratta dunque di un io-prodotto, di un io-artefatto. Abbiamo bisogno dell’arte per comprendere che l’io non è un fatto naturale e spontaneo: è qualcosa che è sempre prodotto da altre individualità. Annlee, in questo senso, si inserisce in una lunga tradizione di forme di vita sintetica antropomorfa che ha le sue prime manifestazioni nel XVIII secolo e che accompagna da allora tutte le arti, dalla letteratura al cinema, alle arti plastiche, e in tutti i suoi generi, dal gotico alla science-fiction, e che ha i suoi capostipiti nel Frankenstein di Mary Shelley2 (da sempre uno dei riferimenti più importanti di Parreno) e nella tradizione ebraico-cabbalistica del golem3. Eppure, si distingue per almeno tre ragioni da questa tradizione. Innanzitutto, a differenza di quello che Isaac Asimov aveva chiamato il ‘complesso di Frankenstein’ l’io dell’opera d’arte non ostenta alcuna superiorità rispetto al suo creatore – al contrario, sembra porsi al di là da ogni comparazione.
Proprio perché la gerarchia tra gli ego sembra esclusa, ogni questione morale che aveva lungamente affaticato questa tradizione, nel bene come nel male, è esclusa. Così, le leggi della robotica che Asimov aveva formulato proprio per garantire l’io-artefatto in una moralità positiva nei confronti dell’umanità sono inutili. Non c’è più alcuna urgenza di correggere la negatività faustiana di scienza.
Questa indifferenza ontologica e morale della psicologia non-umana né perfettamente antropomorfa dell’artefatto rispetto a quella dell’artista è in realtà la conseguenza della terza grande differenza che le creature-soggetti dell’arte di Parreno mostrano rispetto alla tradizione da cui sembrerebbero provenire. Golem, Frankenstein o i robot della fantascienza contemporanea erano incarnazioni di un’idea di artificio (o della magia nel caso del golem) che partiva dall’idea di voler imitare e migliorare l’essere vivente dal punto di vista meccanico. Nessuno meglio di Ernst Kapp4 aveva espresso questa idea della tecnica: ogni macchina è la proiezione esterna e il potenziamento di un organo anatomico al di fuori del corpo umano. Il martello permette di esteriorizzare e potenziare l’articolazione di pugno e avambraccio, gli occhiali esternalizzano e potenziano il cristallino dell’occhio. Persino il computer è stato, all’inizio, considerato da questo punto di vista: si trattava di esteriorizzare e potenziare le azioni del cervello umano o animale. È per questo che la ‘scienza delle macchine’ ha coinciso con la cibernetica – un sapere sul governo delle azioni altrui. Era questa agentività che paradossalmente frenava la pulsione verso l’animismo di ogni macchina: il soggetto che viveva in una materia non anatomica doveva solo agire.
Gli automi-opere di Parreno non devono agire, non sono imitazioni meccaniche del corpo dei viventi in quanto capaci di agire. L’arte, l’artificio, deve ora darci un accesso a una vita psichica aliena, non necessariamente mimetica del resto: sono macchine psicomorfe che negano che la vita psichica sia un attributo puramente umano. Marilyn da questo punto di vista è più di un manifesto: il punctum dell’opera è proprio la prova che la psiche è il punto di coincidenza tra vita umana e vita della macchina e non il loro punto di disgiunzione. Gli automi parreniani mostrano che la coscienza e la sua vita esiste ovunque, e viceversa che la materia può animarsi in qualsiasi momento. È per questo che Annlee è capace di abbracciare qualsiasi storia.
Ad essere rivoluzionata non è solo l’idea di arte, ma anche quella di realtà. Per secoli abbiamo immaginato che la continuità tra l’artista e l’opera d’arte fosse cognitiva e formale: è la forma presente nella mente dell’artista che si trasmette nella materia che plasma. Viceversa è stata questa continuità mentale e cognitiva dell’artista-artigiano che è stata presa a modello per pensare il rapporto tra divinità e mondo nelle religioni rivelate. È per questo che l’unità suprema del cosmo ci è sempre parsa come di natura cibernetica, nella forma di una mente suprema capace di abbracciare tutti gli eventi, tutte le cose, tutti i viventi. La scienza doveva replicare questa forma mentis originaria o parallela a tutto ciò che esiste.
Nell’arte di Parreno la continuità tra artista e opera è puramente psichica ma non è più causale. L’artista apre nella materia luoghi degli spazi di condivisione di una vita psichica aliena di cui non è il creatore né il modello. Se si proietta questo modello su un piano cosmico, il mondo appare come afferrabile a uno sguardo unitario solo attraverso un’unica concatenazione psichica. Viceversa, la comunicazione psichica non è possibile spontaneamente ma sempre e solo attraverso l’artificio – sempre e solo esteticamente. Abbiamo bisogno di arte, molto più di quanto ne abbiamo di scienza perché si dia un cosmo psichicamente unitario.
L’arte moderna e contemporanea aveva ereditato il programma che Friedrich Schiller aveva formulato nelle sue Lettere sull’educazione estetica dell’uomo (1795). L’arte non ha una funzione puramente cognitiva né puramente morale, non produce né conoscenza né legge perché vive in uno spazio intermedio: è in questo spazio però che il soggetto esiste ed è per questo che l’arte ha a che fare con la soggettività più che con il mondo. La sua autonomia dalla scienza e dalla morale è ciò che ne fa il laboratorio per la costruzione della soggettività. Nelle mani di Parreno questa eredità è assieme prolungata e rovesciata: se l’arte ha a che fare con il soggetto, è soprattutto alla dimensione non umana e non terrestre dello psichico che l’arte ci permette di avere accesso.
L’arte esiste perché esiste nel mondo questo psichismo cosmico infra o ultraumano.