Nel 1913 le industrie automobilistiche di Henry Ford iniziarono a adottare un sistema di produzione basato sulla divisione e serializzazione del lavoro, sfruttando l’avanzamento dei pezzi da assemblare su dei nastri trasportatori. La catena di montaggio di Ford portava il lavoro direttamente agli operai, ottimizzando i tempi e aumentando la produzione. Questo sistema produttivo fu immediatamente ribattezzato col nome di fordismo e adoperato da molti industriali americani ed europei, ma ampiamente demonizzato dai lavoratori che ben presto si ammalarono di “fordite”, una patologia caratterizzata da un senso di allucinazione nervosa, dolore fisico e psicologico, stress e alienazione, qualcosa che all’epoca spinse lavoratrici e lavoratori della Ford a dimettersi in massa dall’impiego in fabbrica. La storia dell’industrializzazione moderna e della somatizzazione del lavoro inumanizzato ritorna surrettiziamente in una sequenza della video installazione Ministries of Loneliness (2023) di Rebecca Moccia, che quantifica statisticamente come i modi di produzione siano da sempre dei dispositivi condizionati e condizionanti. Ingaggiando una sorta di dialogo trans-storico con le “grandi dismissioni” degli operai americani di inizio Novecento, l’artista mostra un grafico da cui si evince la presenza dei termini “loneliness” e “solitude” nella letteratura britannica a partire dal XVI secolo sino agli anni Duemila. In inglese, la differenza tra i due termini, uno di origine proto-germanica e l’altro di derivazione latina, conferisce – come spesso accade nelle lingue neo-germaniche – al primo una materialità tangibile, mentre al secondo una dimensione più concettuale. Insomma, il termine loneliness descrive uno stato di malessere che nel suo manifestarsi ha conseguenze fisiche così come la “fordite”. Inoltre, il grafico che scorre in Ministries of Loneliness ci dice come questa condizione abbia iniziato a essere frequente a partire dal XVIII secolo, in parallelo all’affermazione degli stati liberali e in relazione al susseguirsi delle rivoluzioni industriali. Ma a prescindere dai documenti, sembra evidente che l’obbiettivo dell’artista sia quello di dare corpo a un sentimento materializzando il fantasma di un dato di fatto attraverso il surrogato della rappresentazione. Uno sforzo che ritorna in tutto il lavoro di Moccia e in cui proverò a addentrarmi un pezzo alla volta.
Ministries of Loneliness fa parte di un più ampio progetto di ricerca nato intorno a una complessa riflessione sulla solitudine e in scia alla campagna della parlamentare britannica Jo Cox che, appena prima della sua tragica uccisione per mano di un fanatico nazionalista e seguace del partito neofascista del National Front, aveva lanciato la “Commission on Loneliness”. La delegazione parlamentare, diventata poi un vero e proprio ministero del Regno Unito, era stata pensata come risposta politica alle cause sociali e agli effetti personali della solitudine cronica. Il lavoro che Moccia ha prodotto per gli spazi di ICA Milano – nell’ambito della mostra “Ministries of Loneliness” curata da Chiara Nuzzi e allestita dal 4 maggio al 14 luglio 2023 – mescola immagini video in presa diretta, documenti e termografie, in un desktop documentary a due canali più uno, in cui il terzo monitor funge da spazio dedicato al saggio-script del video. I monitor esposti sono normalizzati in un contenitore che, nell’inscenare l’esperienza personale dell’artista in uno degli uffici del Ministero della Solitudine in Giappone, ripropone l’immersione nello straniamento da pharmakon politico. L’installazione si riconnette idealmente agli apparati burocratici fatti di scrivanie, pannelli separatori e cavi elettrici, per riflettere sugli epifenomeni dell’ideologia neoliberale alla base della grande depressione occidentale. Come spesso accade nel lavoro di Moccia, l’installazione si arricchisce del portato storico-atmosferico dello spazio in cui è inserita, appropriandosi dell’ex-funzione industriale dell’ufficio di Fondazione ICA a Milano sud che, in un passato non lontano, era stato una fabbrica di frigoriferi.
L’artista da un lato materializza la “fredda fabbrica” burocratica e dall’altro denuncia l’approccio di una società autoimmune, in cui il rimedio nasce laddove è stato generato il danno. Infatti, analogamente a quanto avvenuto con Ford, che per arginare la fuga di corpi dalla sua catena di montaggio fu costretto a istituire un apparato di regolamentazione e irreggimentazione psico-fisica della vita degli operai, Moccia descrive i ministeri britannici e giapponesi o le organizzazioni scientifiche americane come rimedi funzionali a ridurre l’improduttività da solitudine di lavoratrici e lavoratori. Il capitalismo trova sempre la sua strada: che sia nelle regole morali del dipartimento di sociologia per gli operai dell’automobile di Detroit o nella documentalità dei test della University of California di Los Angeles che misurano la solitudine che l’artista materializza e a volte infrange nelle piccole decalcomanie su ceramica di Loneliness Scales (2023). Una scala ambigua, pharmakon per l’appunto (veleno e medicina), che sintetizza la proposta di riparazione politica alla solitudine attraverso nuovi dispostivi di governo.
Eppure, anche se all’apparenza questa sembrerebbe l’ennesima spedizione nella Loch Ness del realismo capitalista o la constatazione di fatti che non possono essere altro da quello che sono, nel lavoro di Moccia c’è la volontà di un’affermazione strategica della sua ricerca artistica. È evidente, infatti, che l’artista parta dalla discorsività critica e dalla materializzazione delle esperienze della contemporaneità neoliberale con il desiderio di esplorare una terza via per risposte possibili. La domanda allora diventa: in che modo affrancarsi da un compito diligente e/o risolvere il problema con la stessa mentalità che l’ha generato? In questo senso, la pratica di Moccia mette in discussione un’idea di arte de-funzionalizzata e spesso collusa col capitale, reinterpretandola come mezzo per incontrare le “microculture ibride” della contemporaneità globale, ritenendo (l’arte) ancora capace di innescare atti trasformativi. L’artista, infatti, si muove nella sua geografia di ricerca e ci dice che non tutto si può ridurre a un passivo relativismo morale che inibisce la capacità d’azione di ogni soggetto. Questa precisa attitudine trova conferma se si osserva in controluce il lavoro di Moccia, soprattutto in relazione a quello delle generazioni precedenti.
Per intenderci, nel 2019 Werner Herzog ha girato un film – intitolato Family Romance, LLC – quasi da solo, usando una piccola telecamera digitale e degli smartphone. Anche questo film, come parte del progetto di Moccia, è ambientato in Giappone ed è infatti un meta-documentario sui servizi di noleggio di figuranti atti a interpretare amici o familiari fittizi per colmare assenze effettive nella società giapponese ultra-connessa. Così come fatto da Herzog, anche i materiali di Ministries of Loneliness sono stati girati dall’artista stessa con delle piccole telecamere digitali. Insomma, i due lavori sembrerebbero insistere su questioni simili, ma questa similitudine è solo superficiale.
Per apprezzare e al meglio le differenze è necessario uscire dalla riproduzione e provare almeno per un attimo a non focalizzarsi sul racconto. Family Romance, LLC di Herzog è innanzitutto un viaggio alla scoperta della fabbrica della realtà. Un’indagine sulla natura umana tardo capitalista che, nel momento stesso in cui viene svolta, si pone al di sopra di essa. La disconnessione o la distanza voluta da Herzog testimoniano il desiderio documentaristico del regista, in cui l’osservazione e la “mosca sul muro”1 si confondono con la finzione autoriale. Un cinema che ha attraversato la miniaturizzazione dei device di registrazione dell’immagine in movimento per arrivare alla personalissima traiettoria di Herzog, in cui la complessità sociale viene mostrata sino a essere compressa e archiviata. Un approccio tassonomico di conservazione di un mondo che, comunque vada, sembra non avere nessuna possibilità di farcela. Una storia che pur vivendo in una esplicazione lineare e di aderenza ai fatti sembra essersi persa qualcosa per strada. Ed è proprio quel “qualcosa” che una nuova generazione di artiste sta provando a ricostruire, anche a costo di eliminare definitivamente la distanza e il peso stesso dell’autore.
Da qualche anno, il lavoro di Moccia si sta letteralmente confrontando con la temperatura degli eventi che lei stessa ritrae. Nei paesaggi della baia di Tojinbo, in Giappone, e nelle immagini termiche della serie “Cold As You Are” (2022), il colore irreale del mare si contrappone al freddo dei corpi senza vita delle tante persone suicidatesi gettandosi dalle scogliere oppure all’assurdità delle piccole folle di turisti che sorridono a camere digitali puntate verso l’orizzonte. Ogni rappresentazione è un contrappunto in cui l’amore è più freddo della morte, come sosteneva Rainer Werner Fassbinder, dove la profondità atmosferica combatte con l’immagine appiattita nella sua astrazione digitale. Queste istantanee definiscono un contesto che esiste sia oltre il visibile che oltre ogni scala di misurazione. Non è un caso che lo stesso uso funzionale delle termo-camere digitali venga ridiscusso dall’artista nell’arazzo Un corpo che si infiamma (2023) realizzato in collaborazione con Giovanni Bonotto. In quest’opera, per rendere il calore delle cose ritratte Moccia non si affida solo alla correlazione estetico-informazionale delle termografie, ma anche agli stessi filati e al loro modo di restituire la temperatura delle fibre, che sembrano avere il compito di trasformare la materia in un correlativo oggettivo della qualità dell’immagine. Si tratta di uno slittamento concettuale che investe la nostra fiducia rispetto alla macchina e frantuma l’assioma tra tecnica e verità, deviando l’attenzione verso la necessità di relativizzarne l’affidabilità. La memoria di queste immagini è innanzitutto quella di “geografie sensuali”, come direbbe Laura Marks2, che pur venendo dalla frontiera della somma numerica abitano e si spostano nel mondo. Sia l’arazzo che il video, pensato nella sua versione monocanale e installato nel black box per la mostra “Somewhere in the Room” (2023) alla galleria Mazzoleni a Torino, diventano nuovi elementi di un paesaggio emozionale cumulativo. Danno vita a un transito in cui la sala buia restituisce, senza censura estetica, la dimensione personale – quasi diaristica – del viaggio intrapreso dall’artista nei suoi mesi di ricerca 3.
È in questo modo che, lavorando sulla connessione intima tra gli spazi e la percezione emotiva, Moccia rivela ciò che visivamente non è sempre manifesto o che non segue una linearità percettiva. Gilles Deleuze ha affrontato questo stesso problema definendo lo “statuto sensibile del vedere” che, secondo il filosofo, è alla base di alcuni caratteri peculiari dalla pittura di Francis Bacon. L’indistinzione formale, per Deleuze, può avere una funzione enunciativa nelle aree in cui i corpi dipinti diventano parte stessa del paesaggio. In queste regioni atmosferiche, gli effetti materici dell’opacizzazione e la perdita della chiarezza spingono a intraprendere un percorso aptico dello spazio che prescinde dalla presenza dell’immagine4.
Moccia sfrutta un simile meccanismo nell’opera Rest Your Eyes (2021)5, il cui black box di proiezione – ricavato dall’elegante stanza del palazzo patrizio della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Guarene – viene convertito in un lazzaretto dell’immagine sfocata. Nel lavoro di Moccia, l’infodemia e la profusione di informazioni non referenziate si riducono al ronzio delle voci dei notiziari ventiquattro ore su ventiquattro accoppiate all’ombra dei corpi schiacciati sul fondo dello schermo di proiezione. Anche in questo caso, la “logica della sensazione” ha lo scopo di rendere visibile non quello che è sullo schermo, ma piuttosto le forze che nei loro processi di rappresentazione estetica e politica spesso svaniscono. Perse come le voci dei dibattiti parlamentari che rimbalzano sui microfoni muti in ceramica bruciata di How often do you feel heard (2023), che evocano le crisi della rappresentazione politica in cui la comunicazione scompare sia nella macchina della registrazione che nell’astrazione del potere. L’installazione è ispirata dalla visita al parlamento inglese da parte dell’artista e ripropone una riflessione sull’assenza e la mancanza di validi interlocutori politici.
Insomma, di fronte alla violenza invisibile dei modi di produzione contemporanei e ai rimedi che sono parte del problema, il lavoro di Rebecca Moccia resiste e si muove con la stessa perseveranza necessaria ad avanzare in un giorno di pioggia. Come quello del 2017, quando Rebecca Moccia ha lanciato il suo primo assalto al cielo e ha dato forma a Coraggio, la sua installazione ambientale sul tetto di un edificio in piazza Piemonte a Milano. A distanza di qualche anno, molte cose sono cambiate, ma una volta ancora e qualche volta in più, l’artista continua a fare della sua pratica un modo per svestire i panni fradici dell’ego, chiamando a raccolta chi ha gambe per marciare.