Miriam Mirolla: Qual è la genesi delle tue opere?
Renato Mambor: Le mie opere nascono sotto l’influenza di Tano Festa e di Francesco Lo Savio, cioè dal problema di articolare un piano. Ad esempio nei Filtri di Lo Savio c’era una sovrapposizione di tessuti, di materiali; non si fingeva niente, ma tutto era esperienza concreta. Quando Lo Savio doveva dipingere un verde-ombra lo realizzava concretamente. Verso la fine del 1960 ho costruito un oggetto che assomigliava a una “mezza molletta” ingrandita, semplificata e verniciata di bianco per eliminare qualsiasi effetto cromatico e per far risaltare l’archetipicità dei suoi piani modulari. La “molletta” aveva curve e controcurve, per cui la forma era la risultante della modulazione della luce sul piano. Tutti gli oggetti sono modulati dalla luce. La molletta per me era una scultura attraverso cui risalire a una campionatura di possibilità. Tutto il mondo, anzi tutta la percezione visiva del mondo, poteva stare in una molletta.
MM: Decostruendo un semplice oggetto d’uso come la molletta, cominciava la tua ricerca sul rapporto forma- funzione delle cose, ricerca approfondita nell’arco degli anni Sessanta, attraverso continui sconfinamenti in altre discipline: la fotografia, l’oggettistica, le indagini statistiche e infine il teatro. Oggi però hai ricondotto il rapporto forma- funzione nell’ambito della pura pittura, realizzando quadri, almeno apparentemente, tradizionali. Perché?
RM: Negli anni Sessanta l’attenzione era rivolta a una perlustrazione della bidimensionalità, si era arrivati a una scoperta anti-illusionistica e antiemozionale. Come in un esperimento, si era deciso di indagare solo su una parte del mondo: quella dei segni. Ma questa ricerca aveva un limite che era — la tela di Paolini o lo schermo di Mauri, su cui era scritto “Fine” — un punto di non ritorno. Finiva quindi la sperimentazione, perché sulla superficie piana puoi compiere solo una serie di operazioni come tagliare, misurare, colorare, squadrare; ma poi queste operazioni si esauriscono. È per questo che oggi ritorno al soggetto, dopo aver fatto da sempre un’analisi in superficie. Oggi ogni mio quadro è dipinto, costruito attraverso l’agire pittorico, ma non è un quadro di rappresentazione, è sempre un’esperienza sulla bidimensionalità. Non c’è illusionismo, ma un’oscillazione continua tra il piano e il referente. In questo senso non rappresento una sedia, ma la ricostruisco attraverso la concretezza del dipingere.
MM: Come fai a dire che i tuoi quadri non hanno niente a che vedere con la rappresentazione?
RM: Perché la rappresentazione è un’immagine del mondo. Ora, io guardo il mondo ma cerco di creare una realtà in termini pittorici. Ricostruisco così non la forma esterna di un oggetto, ma la funzione per cui quella forma è stata determinata. Non rappresento l’oggetto ma ricostruisco il suo procedimento. Se prima indagavo sul nome di un’immagine, oggi ne faccio esperienza.
MM: Quindi prima si trattava di una pittura “nominalista”?
RM: Sì, proprio perché per sbarazzarsi del soggetto si arrivava a nominare le cose, a indicarle. Del resto con l’Evidenziatore l’intento fu quello di indicare le cose senza neanche nominarle.
MM: Ma adesso stai parlando degli anni Settanta…
RM: Con l’Evidenziatore andavo a nominare direttamente le cose nella realtà. C’era questo problema: di solito vediamo una sedia e poi, nello spazio e nella categoria dell’arte, c’è una sedia soggettivata; quindi viene fuori un doppio del reale, alterato da un certo quoziente di soggettività. Invece per me il discorso era quello di eliminare l’Io, il soggetto, che sentivo quasi come fosse una sovrastruttura della personalità. Volevo sbarazzarmi dell’Io, della manualità, della rappresentazione e del doppio. Allora mi dicevo: come fare per indicare l’oggetto nello spazio reale e non nello spazio della rappresentazione? Duchamp in effetti aveva preso l’Orinatoio e l’aveva portato in galleria per farlo diventare arte. La mia idea invece era quella di andare nel pisciatoio e dire: “Questo, a seconda di come tu lo vedi, diventa un oggetto d’arte”. In realtà non è l’oggetto che diventa arte, ma il tuo modo di vedere lo rende tale.
MM: Dopo anni di attività teatrale col Gruppo Trousse, per quale motivo hai ripreso a dipingere?
RM: Credo che l’arte sia essenzialmente un modo per entrare in rapporto con il proprio essere, anzi una pratica dell’essere. La pittura è un problema di conoscenza; e quando ne ho sentito l’esigenza, ho ricominciato a lavorare. Il viaggio tra me e il quadro è un viaggio di consapevolezza e anche di conoscenza; poi il quadro finisce e diventa un oggetto che va nel mercato. Ma dipingere è necessario, è un atto religioso (nel senso etimologico di cucire, legare) ed è sempre questo che si fa con la pratica fisica: legare il soggetto all’oggetto.
MM: Non temi i rischi di una componente troppo figurativa?
RM: Sto lavorando in questo senso, non ne ho paura. Il quadro per me ha una funzione psicologica, è una guida alla conoscenza di te. Non è mai la cosa ma l’uso che fai della cosa a restituirti un contenuto che non c’è in partenza, perché in partenza ci sono solo problemi linguistici, su cui poi si innesta un’attività simbolica. La pittura diventa un modo per accorgermi di un evento e non solo di un oggetto. Ciò che mi interessa, attraverso la percezione, è scoprire le cose dall’interno e non più dall’esterno. Come nel detto Zen: guai a chi osserva l’indice che indica la luna.