ADDIO A RENATO MAMBOR
Renato Mambor se ne è andato il 5 dicembre scorso.
Questa che pubblichiamo è la sua ultima intervista, il suo testamento spirituale. Pochi giorni prima della sua scomparsa. Al telefono, con voce flebile e sofferta, mi ricordava alcuni momenti felici vissuti insieme a Milano, in montagna e a Calice Ligure. All’amico Renato questo omaggio e il ricordo commosso e affettuoso della redazione di Flash Art.
Giancarlo Politi
Patrizia Ferri: La tua riflessione sul linguaggio, la realtà, la sua rappresentazione e trasformazione è condensata metaforicamente dai frammenti dello specchio rotto nell’Ultima riflessione. Si intuisce che tu non abbia un buon rapporto con lo specchio…
Renato Mambor: L’Ultima riflessione nasce in realtà da un’immagine che mi colpì da ragazzo, una pubblicità alta quasi tre piani dove c’era un uomo con una scarpa elegante lucida, vicino a cui c’era la scatoletta di Brill, il lucido da scarpe, e sulla scatoletta c’era un uomo elegante con una scarpa lucida con vicino una scatoletta di Brill, e così via: insomma una vera e propria meta-immagine, che rimandava all’infinito. Ho una particolare avversione ad aggiungere un oggetto a un altro oggetto o un’immagine a un’altra: la mia idea era che bastasse semplicemente indicare per far diventare arte un mare, un tramonto, una scala o una bottiglia. In quel momento, era il 1969, non volevo più aggiungere oggetti, creare collegamenti e amplificazioni per cui ho accostato tre fotografie in sequenza, ovvero io che fotografo lo specchio, mentre lo specchio mi riflette con il fotografo dietro di me che inquadra la mia immagine e la sua. Alla fine, per uscire da questo tunnel non potevo che rompere lo specchio, ma l’immagine non scompariva, bensì si frantumava moltiplicandosi: significava abbandonare un atteggiamento e entrare in un altro, che in quel momento non sapevo ancora quale fosse.
PF: La dinamica fra spettatore-osservatore-autore che mette in discussione il ruolo tradizionale e demiurgico dell’artista, è il filo conduttore della tua ricerca: “colui che guarda non è più spettatore, ma scopre in sé ciò che l’artista scopre nella sua opera”. Sono dunque tutti potenzialmente artisti in virtù di questa possibilità?
RM: No, ma la creatività è molto vicina all’arte ed è mettere in atto qualcosa di nuovo, anche un pensiero, qualunque cosa che prima non c’era: quello è un atto creativo e tutti hanno la possibilità di compierlo; chi non riesce a farlo è perché non ha fiducia in sé stesso, non perché non ne abbia la capacità. Certo, l’artista ha un qualcosa di diverso, per esempio io sono un pittore, e anche quando facevo il ballerino o il cantante o il regista era sempre “Il pittore Mambor fa”.
PF: Dalle azioni fotografate ai “Rebus”, dai dispositivi duchampiani come l’Evidenziatore e La Trousse, ai bozzetti di scena dei tuoi spettacoli, si sente la tensione a entrare e uscire continuamente dalla cornice della rappresentazione attraversando lo spazio della vita, un movimento speculare che crea un cortocircuito dello sguardo dove il tuo corpo è usato come dispositivo relazionale: l’arte si produce attraverso questo “falso” e insieme vero movimento?
RM: Sì, anche se poi questo falso/vero movimento mi mette un po’ in crisi. Dal mio ritorno alla pittura ho messo il mio corpo dentro il quadro per trasferirvi l’esperienza della vita, prendendomi la responsabilità di questa verifica. Il mio è un corpo che osserva, l’esperienza non passa dalle viscere come per gli artisti informali, è analizzare come funziona la vita, passando attraverso lo sguardo. Mi piace ascoltare il corpo e metterlo in relazione con l’ambiente, nei diversi linguaggi della fotografia, della pittura, della scultura: in questo l’esperienza di tanti anni in teatro è stata fondamentale.
PF: Perché l’arte non ha cambiato il mondo? Cosa non ha funzionato, secondo un “umano, troppo umano” come te? Come mai non è riuscita a far affiorare l’umanità profonda dell’individuo che è il vero motore di cambiamento? La massificazione ideologica ha influito negativamente?
RM: Indubbiamente. C’è da dire anche che non è che se faccio un bel quadro risolvo problemi. Il problema è pre-politico, l’arte avvolge l’uomo, lo cambia e poi a sua volta l’uomo può cambiare la politica. È l’arte che dà le informazioni, svela i meccanismi del sistema. Non si può fare la rivoluzione spostando la posizione delle sedie. Uno degli errori è stato pensare la rivoluzione in termini di ideologia, mentre tutto deve partire da una trasformazione personale che si diffonde da uno all’altro come un virus assolutamente salutare.
PF: La dimensione relazionale è la dimensione stessa dell’esistenza secondo il buddhismo e la cosiddetta ecologia profonda, che implicano l’abbandono dell’Io per una visione non più antropocentrica: togliere l’Io dal quadro era un imperativo già a partire dai tuoi esordi, per una poetica volutamente scevra da compiacimenti intimistici. Come hai fatto a tenere a bada l’ego dell’artista? Dai qualche consiglio a questo proposito per una “vita ecologica”, come scrivevi, ce n’è bisogno in un momento di psicopatologia generalizzata come questo.
RM: L’Io invadente è una cosa che fa male al mio corpo. Stare con gli altri aiuta a capirsi e a capire, e la competizione non mi interessa. Come artista ho un assillo continuo sul mio lavoro, come essere umano continuo ad approfondire la pratica della consapevolezza. Non solo ridimensiono l’ego dell’artista, ma attivo le potenzialità della mia mente, del mio corpo, della mia vita, ampliandole ad accogliere gli altri: accettare il negativo, utilizzarlo, camminare accanto alla malattia o alla sofferenza permette di vivere ogni istante, senza dipendere troppo dall’esterno. Ho scoperto di poter vivere intensamente anche nei momenti difficili, trovando soluzioni impensate pulendo la mente, avendo degli obiettivi e sostenendoli con la forza dell’interiorità, trasformando i pensieri meccanici che provengono dai condizionamenti mentali, anche se naturalmente non è facile. La paura non la cavalchi, ma la attraversi: si cade, ma poi ci si rialza, e il consiglio è di non lamentarsi mai, ci indebolisce.
PF: Insomma, “da anatra e da garofano” come hai affermato ironicamente nei tuoi scritti, deduco che non si stia poi così male.
RM: No, ma forse è meglio ancora farsi pane, per poter nutrire.