Loredana Barillaro: I tuoi lavori, mi riferisco in particolare ai disegni, sembrano caratterizzarsi per la loro natura di “fogli sparsi”, i quali sembrano tracciare, più che un’opera, appunti, discorsi e pensieri di un artista.
Riccardo Baruzzi: Sì, direi fogli sparsi di un uomo che dipinge. Come dici tu sono delle tracce. Le mie tracce su fogli di piccolo o medio formato, posati e mostrati su dei semplici tavoli. Oggi tracce di urgenti esigenze, come quelle lasciate dagli uomini nelle grotte di Lascaux nel Paleolitico.
LB: Sembra che tu compia un gioco attorno alla pittura: la costruisci, ne segni i singoli momenti, ne registri l’essenza e, al contempo, la destrutturi, quasi per farla a “pezzi”.
RB: L’interesse del bambino nello smontare il giocattolo è in me; nei miei occhi, il desiderio di trasformare la pittura con l’idea di prenderne parti, struttura, visione ed elaborarli dall’interno. Io stesso da bambino copiavo ed elaboravo le immagini da cui ero colpito, senza però giustificare niente a nessuno e, per così dire, seguendo un piacere retinico. Oggi credo ancora nella stessa operazione, ancora mi accompagnano il gioco dei particolari, la visione del macroscopico, l’estasi dello smontare, l’occhio che fissa e si inumidisce. Qualcosa vi si aggiunge, ma solo qualche piccola menzogna.
LB: Per la mostra “Quando disegno non canto” testimoni il tuo lavoro mentre si compie, e l’opera che ne scaturisce è proprio il risultato di tale testimonianza.
RB: Ho evidenziato alcuni aspetti in ombra — in quanto costruttore di cose — del “processo creativo”. In particolare, facendo riferimento al disegno e alla pittura, a quello che avviene fra me e la tela, nel momento in cui essa viene concepita. Ho analizzato quella fase temporanea in cui la mano, accompagnata dal respiro e dal battito cardiaco, segna o scolpisce il materiale da trattare. Considero questa fase come “ulteriorità oggettiva”, un punto temporale indefinibile, dove tutto ciò che accade è offuscato. Se ricostruiamo lentamente l’azione, scopriamo che la ricezione dei segnali audio da noi creati arriverà al cervello come un messaggio subliminale, in quanto il pittore è teso/sospeso a una risposta visuale. Il messaggio subliminale influenzerà la nostra volontà di costruttori. Prendendo atto di questo fenomeno di influenze sonore, ho invitato nel mio studio il percussionista Enrico Malatesta per una performance. Solo al suo arrivo gli è stato spiegato che avrebbe dovuto svolgere la stessa operazione ma invertendone i valori, ovvero costruendo un’estetica compositivo-musicale, usando solo carta, matite, pennarelli, gomme, senza considerare alcun tipo di risultato visivo. Oltre al risultato audio della prova svolta dal musicista, sono emerse una serie di affinità, anche gestuali, tra le tracce segniche eseguite da me, in quanto pittore, e i tracciamenti ritmico-pausali prodotti dal percussionista. Disegno e musica si sono incontrati sul piano della manualità esecutiva, manifestando qualcosa come un ribaltamento specifico involontario. Nella mia personale, “Quando disegno non canto”, il pubblico può ascoltare questa registrazione incisa su vinile in unica copia.