Francesca Mila Nemni: Un’ostinata aderenza al reale è il tratto distintivo più evidente nei vostri primi lavori che rivelano il rigore operativo e concettuale tipico dei teoremi. Quale assunto vogliono dimostrare?
Richard Sympson: Oh, no! Nessun teorema, nessun assunto. Siamo solo operatori visivi. Ci riserviamo semplicemente un ruolo descrittivo e non predittivo. Per realizzare un’immagine riflettiamo prima di tutto sullo strumento utilizzato. Nei nostri lavori fotografici, per esempio, abbiamo cercato un metodo che ci permettesse di utilizzare la fotografia per descrivere e non per rappresentare. Per raggiungere questo obiettivo ci siamo svincolati dalla parzialità del punto di vista unico. Usiamo, quindi, la macchina fotografica come un semplice acquisitore di informazioni per realizzare una scansione del soggetto in scala 1:1. Questa è, per noi, una modalità empirica per rapportare e rispettare ogni elemento per quello che è. Sulla piccola scala si realizza dedicando attenzione a ogni filo d’erba, su una scala più generale dedicando attenzione alle differenti collettività emotive che compongono la comunità Italia. L’aderenza al reale è anche guardare a questo. Di fatto, il nostro approccio, intenzionalmente analitico, non è teso verso una chiusura dogmatica ma vorrebbe anzi generare continue aperture; cerchiamo di lasciare sempre aperto un spazio critico che permetta di sedare l’ansia da significato. Il nostro rigore sta nel cercare soluzioni formali che assolvano alla lettera il contenuto, senza imbrigliarlo. Questo è riscontrabile già nel nome, “Palmo a Palmo”, dato sia al processo con cui realizziamo le immagini sia al nostro primo progetto fotografico.
FMN: Chiedervi se vi state muovendo verso un annullamento dell’autorialità è forse fuorviante, tuttavia come vi ponete all’interno della vostra ricerca artistica?
RS: Non neghiamo assolutamente la nostra autorialità, cerchiamo piuttosto di canzonare la pregiudicante autoreferenzialità dell’autore. Dei nostri lavori siamo gli autori e non i soggetti. Il vero soggetto è l’aleatorietà del significato, perché frutto di interpretazioni sempre soggettive e mai definite. Il ruolo che vorremmo avere è quello di generare continuamente dubbi nell’osservatore.
FMN: I concetti di indice, icona e simbolo sono sempre presenti nelle vostre opere. C’è una concezione del segno a cui vi sentite più vicini?
RS: Questi concetti sono sempre presenti, noi ci mettiamo solo l’accento. Il segno è ciò che permette di collegare i punti. È un po’ come nel gioco enigmistico: solo collegando i punti si può vedere la forma. I nostri soggetti sono queste linee. I punti sono lasciati a chi guarda. Ne è un esempio il progetto “Variazioni su un segno”, presentato nella collettiva, “Beyond the Dust”, dove il segno preso come oggetto è la croce, individuata però nel verde brillante delle insegne farmaceutiche.
FMN: Quali sono i criteri in base ai quali scegliete i vostri soggetti?
RS: I soggetti provengono dal bacino socio-culturale a cui apparteniamo. Non avrebbe senso, per noi, una mera ricerca formale decontestualizzata dall’oggi che l’ha resa ipotizzabile.
FMN: La rigorosa riflessione sul linguaggio del medium, su cui state insistendo negli ultimi tempi, ha lentamente portato a un parziale allontanamento dei vostri lavori dalla fotografia. A cosa state lavorando in questo periodo?
RS: Forse a una prima lettura sembrerebbe che ci siamo avvicinati di più alla scultura, ma di fatto semplicemente ci lasciamo indicare dal progetto stesso quale debba essere il linguaggio da utilizzare. Banalmente ti diremmo che stiamo continuando a descrivere e scrivere. L’oggetto più recente è la parola/suono nella sua più complessa natura di supporto veicolante. Abbiamo individuato nella scrittura il registro rappresentativo su cui riflettere, utilizzando l’alfabeto fonetico internazionale. Questo ci permette di scrivere i suoni e non le lettere, di registrare le parole così come sono emesse. Ancora aleatorietà del significato, ancora un tentativo di generare dubbi in chi guarda.