Maurizio Cattelan: Vi farò delle domande sulla famiglia, perché immagino che il vostro processo creativo sia familiare e dispiegato come un albero genealogico.
Kate Mulleavy: Esatto. Da piccola immaginavo che la mia vita familiare fosse un film, e che alla fine noi non avremmo più avuto il controllo su nulla. Mi chiedevo come fossero le persone che ci guardavano.
MC: Partendo dalle origini: siete sorelle?
Laura Mulleavy: Sì.
MC: I luoghi dove avete trascorso l’infanzia hanno avuto un impatto sul linguaggio del vostro design. Potete parlarci di come diversi ambienti abbiano plasmato il vostro punto di vista?
LM: Io e Kate siamo molto ispirate dal luogo dove siamo cresciute, vicino la spiaggia di Santa Cruz (la città in cui è ambientato il film Ragazzi perduti), tra pozze di marea, foreste di sequoie, campi di senape, tulipani della California e frutteti. Eravamo circondate dal mito di Steinbeck e Kerouac, e tutto il paesaggio era avvolto da un’atmosfera dai contorni sfumati. Hare Krishna, skater psichedelici, hippy, punk, surfer — tutti questi ricordi hanno forgiato il nostro pensiero creativo. Il Nord della California è per natura un paesaggio selvaggio, e la cultura che ne è stata prodotta riflette questo aspetto.
KM: Casa nostra era situata proprio nei pressi della faglia di San Andrea. Ricordo che un’estate ci fu un grande terremoto. Io ero in cucina e in pochi secondi ogni piatto, scodella o bicchiere è letteralmente saltato dalle mensole, sfracellandosi sul pavimento intorno a me. Ero stupefatta da quei cocci. Per me e Laura un piatto rotto sarà sempre più interessante di un oggetto intatto e perfetto. Il valore è nella macchia, nell’ombra, nella sfumatura, nella rottura. Siamo attratte dall’imperfezione e dalla bellezza del caos.
MC: Esiste una vostra collezione che rappresenta maggiormente la vostra storia personale?
LM: La nostra collezione Primavera 2011 è stata ispirata dal Nord della California. Gioca con l’idea delle foreste di sequoia, i pannelli di finto legno (molto usati nel nostro luogo natale) e l’idea di un cowboy californiano, che ha assunto le sembianze di un samurai, un gladiatore (un richiamo allo stemma dello Stato della California) e un guerriero cinese. La collezione è ispirata dalla stratificata storia e cultura della regione, così come dall’espansione delle zone periferiche.
KM: Anche la Primavera 2010 è ispirata al condor californiano, natio della nostra zona. La collezione Primavera 2009 è invece basata sul nostro film preferito, Guerre Stellari, che da bambine guardavamo ripetutamente. Siamo state ispirate dalla storia dello spazio raccontata da una prospettiva umana. In Guerre Stellari le immacolate truppe d’assalto (gli Stormtroopers) si sporcano, il che permette allo spettatore di relazionarsi allo spazio in maniera fisica e umana.
LM: Questa collezione, basata su Frankenstein e Gordon Matta-Clark, si rifà al paesaggio in cui siamo cresciute. L’ispirazione ci è arrivata inaspettatamente sull’autostrada 110, che collega downtown Los Angeles a Pasadena. Un grande pezzo di materiale isolante era caduto da un camion e si era accumulato lungo il ciglio della strada da cui si intravedeva una fila di antiche case vittoriane. Questo materiale era di un rosa polveroso rivestito di un sottile strato di carta stagnola. Abbiamo deciso che il mondo che volevamo creare era quello che deriva da un luogo decostruito: un posto arcaico e futuristico al contempo. Una consistenza stratificata: pile di pietre, granito, marmo, malta, muratura, materiali isolanti, tubazioni, ghiaia e legno. Opere di Gordon Matta-Clark e ovviamente il Frankenstein di Boris Karloff catturavano quella sensazione: come può la figura fantascientifica per eccellenza non relazionarsi alla configurazione e deformazione della casa? Con questa collezione abbiamo voluto esplorare processi di costruzione, rovina e preservazione. A collezione ultimata abbiamo iniziato e scorgere il suo collegamento con i paesaggi desertici in cui siamo cresciute. Il Joshua Tree National Park è infatti dominato da una geologia fatta di roccia sottoforma di grandi macigni ammassati in pile, ma è anche punteggiata dai più carismatici e delicati alberi esistenti al mondo. Questa combinazione di colori delicati dai toni sabbia e strane tonalità di verde ingigantiscono gli aspetti contrastanti del parco, tra il deserto severo, una vegetazione e fauna bizzarre. Come fa un mondo quasi preistorico a rimanere così preservato e perfetto, desolato e isolato, nel bel mezzo della California? L’orizzonte è segnato da spettacolari sculture di roccia, relitti di un’epoca passata, forse un tempo in cui le lucertole erano mille volte più grandi di oggi. Ogni superficie è spezzata, distrutta. I rami degli alberi sembrano braccia a uno stadio avanzato di artrite. I corpi non sono più perfetti, ma come alterati da un mondo meraviglioso, nel quale tutto ciò che si conosce è messo in discussione e deturpato.
MC: Avete altri film preferiti?
LM / KM: Ci piacciono tutti i film di Nagisa Oshima, specialmente La cerimonia. E tutti i film di Ozu, come Fiori d’equinozio o Tarda primavera.
MC: Come è stato disegnare i costumi per Il Cigno Nero?
LM: Abbiamo incontrato Darren Aronofsky a Brooklyn dopo che Natalie Portman ci ha segnalate perché secondo lei eravamo adatte a disegnare i costumi del film. Ci siamo preparate per settimane prima dell’incontro, abbiamo fatto molte ricerche sul mondo del balletto e sul fatto che appartenesse a una cultura voyeurista. Darren aveva una visione straordinaria per il film, e ci ha chiesto di creare dei costumi per una versione moderna del Lago dei Cigni, con pezzi specifici, parti integranti dell’estetica del prodotto cinematografico. È stata un’impresa molto intensa.
KM: Indipendentemente dal tipo di bellezza che il pubblico vuole vedere, il balletto è fatto anche di aspetti complessi come l’allenamento brutale, il corpo che si deforma e la dimensione del backstage. La trama del Lago dei Cigni è la storia della trasformazione di una giovane donna in cigno, che poi muta a sua volta in una storia sulla confusione di identità. La trasformazione, oscura e bellissima, riflette il mutamento fisico che la ballerina subisce per poter danzare. Siamo state ispirate dall’idea di cambiamento, dalla dicotomia tra perfezione e decadenza. Per i tutù del Cigno Nero, del Cigno Bianco e della fanciulla romantica, abbiamo utilizzato il vinile ricamato, strati di piume e cristalli Swarovski applicati a mano, chiffon di seta, reti e organze intrecciate, per creare dei costumi che apparissero perfetti, ma già rovinati. I tutù della fanciulla e del Cigno Bianco sono stati disegnati per richiamare un senso di delicatezza, come un’alba. Rappresentano il sottilissimo ed etereo cigno. Il tutù del cigno nero è più minaccioso e collegato al personaggio di Von Rothbart. Abbiamo pensato che questi personaggi potessero essere visivamente connessi gli uni agli altri; li abbiamo immaginati come uccelli meccanici rotti che si nascondono. Von Rothbart si è sviluppato in una creatura completamente nera, e abbiamo nascosto il viso di Odile con una rete, sempre nera. La cappa rovinata di Von Rothbart è stata ricavata da lana strappata e ricoperta da strati di piume iridescenti verdi e nere. Il suo petto è stato imbottito, e le spalle allargate. La corona del Cigno Nero e i corni demoniaci di Von Rothbart sono di bronzo bruciato.
MC: Come è stato lavorare con Catherine Opie e Alec Soth al vostro libro (Rodarte Catherine Opie Alec Soth, 2010)? Come si è svolto il processo creativo?
KM: Cathy ha immortalato, in progetti di lunga durata, soggetti come Idexa, Jenny Shimizu, Kate Moennig e nostre amiche come Guinevere van Seenus e Susan Trailer. Ha fotografato ogni personaggio contro uno sfondo di un colore specifico, e noi abbiamo scelto dei capi delle nostre collezioni che interagissero con il colore scelto. Ogni ritratto trasmette un senso di intimità intensa col soggetto, come solo una fotografia della Opie sa fare. Anche se Cathy e Alec hanno lavorato separatamente, c’è un dialogo tangibile tra i loro lavori.
LM: Io e Kate abbiamo stilato ad Alec una lista di tutte le cose che ci hanno ispirato in California; e lui ha fatto un viaggio on the road di due settimane per fotografarle. Sentivamo che il paesaggio californiano era fondamentale per raccontare la storia degli abiti che produciamo. È stato interessante perché gli è stato chiesto di documentare cose che interessano a noi e che hanno influenzato il nostro processo creativo e la nostra estetica. È così che ci siamo conosciuti. Era come essere amici di penna. Abbiamo intitolato il libro Rodarte Catherine Opie Alec Soth perché alla fine tutto il nostro lavoro faceva parte di una narrazione.
MC: Da dove viene il nome Rodarte?
LM: Rodarte è il nome di nostra madre prima che si sposasse. Sua madre era italiana e suo padre messicano. Passava le estati dalla sua famiglia messicana. Scalavano le piramidi ed erano affascinati dai mercati notturni illuminati di luci bianche, calaveras danzanti e teschi di zucchero. Adorava i loro corpi bianchi e gli abiti colorati, e quanto il mondo diventasse macabro, verso sera. Mangiava mele cotogne e beveva soda. Si ricorda delle visite in città per vedere i film proiettati sulle pareti dei negozi bevendo Coca Cola. Sulla via di casa compravano tortillas e le mangiavano dai cestini. Si trovava a Città del Messico durante le rivolte studentesche del ’68, e scoprì l’arte e la politica in età giovane. Amava i murales di Diego Rivera.
KM: Da bambina si intrufolava nella camera di suo fratello, che era un intellettuale, e rubava i suoi libri: leggeva Siddharta, Il mondo nuovo, La fattoria degli animali, Candide e Sartre nell’armadio — anche saltando la scuola, per poi fuggire dai genitori arrabbiati nascondendosi sotto il letto, con il volto coperto di cipria per sembrare un fantasma. Era ossessionata dai libri e decise che avrebbe letto ogni singolo volume della biblioteca. Iniziò dalla lettera A. Invece di giocare con i bambini della sua età, nel pomeriggio faceva visita agli anziani vicini. Decise molto presto gli obbiettivi che voleva raggiungere. Nostra madre è un’artista che ha realizzato tappeti Navajo, ceramiche, mosaici, dipinti e sculture. Nostro padre le ha costruito un gigantesco telaio per tessere i Navajo. Per le tinte utilizzava bucce di cipolla, curcuma, gusci di noci e muschio. Adora la Coit Tower di San Francisco e, ancora oggi, l’architettura di questo edificio e le opere del Works Progress Administration (WPA) hanno influenzato la sua produzione artistica.
MC: Qual è l’origine dei vostri nomi?
KM: Sono stata chiamata Katherine in onore di Katharine Hepburn.
LM: Il mio secondo nome, Jacqueline, è in onore di Jackie O. Laura invece deriva da una vicina di mia mamma quando era piccola, Laurel. Era un disastro e in famiglia, ogni volta che qualcosa si rompeva o era fuori posto, si diceva: “È stata Laurel”. Sono stata un incidente, ecco perché ho avuto questo nome.
MC: E che mi dite del vostro cognome, Mulleavy? Da dove proviene?
KM: Mulleavy è il cognome di nostro padre. Lui si chiama Perry, è nato a Sierra Madre in California ed è cresciuto ai piedi del canyon del Mount Wilson. Mount Wilson è dove l’astrofisico Edwin Hubble ha scoperto che l’universo è infinito.
LM: Nostro padre ha frequentato il Pasadena Community College e si presentava vestito in giacca di velluto a coste, pantaloni corti e infradito. Durante un semestre frequentò un corso di botanica e si rese conto che era veramente bravo; così ha iniziato a studiare le piante e in modo particolare i funghi. Ha ottenuto un PhD in Botanica dall’Università di Berkley e ha persino scoperto delle specie di fungo.
MC: E i vostri nonni paterni?
KM: La madre di nostro padre si chiamava Nancy Hall Perry. Parlava sempre delle stesse cose: il liceo che aveva frequentato, sua sorella Martha e Sierra Madre. Faceva delle lunghissime passeggiate.
LM: William Mulleavy, nostro nonno, era tenente colonnello durante la Seconda Guerra Mondiale. Quando veniva a trovarci spariva per un giorno, e quando gli chiedevamo dove fosse stato, rispondeva “ho fatto una passeggiata”. Era un viaggiatore, un esploratore. Andava in giro per il mondo con un aereo da trasporto, un Learjet o addirittura un bombardiere. Non pianificava mai nulla, ma alla fine giungeva sempre da qualche parte.
KM: Quando nostro nonno realizzò la casa di famiglia, costruì una piccola scatola in un angolo del soffitto. Per tutta la sua vita disse alla famiglia che vi aveva messo un tesoro, da svelare solo dopo la sua morte.
MC: Cosa c’era nella scatola?
KM: Indovina.
MC: Libertà opposizione, violenza, eternità.