Simone Forti non ha mai smesso un solo istante di ricercare il suo linguaggio, tramite la danza, l’improvvisazione, la scrittura o la poesia. In un certo senso, non ha mai smesso di muoversi. Infaticabile, nasce a Prato nel 1935 e nel dicembre 1938, insieme alla sua famiglia, arriva a Los Angeles. Dopo il college, nel 1955, si sposta a San Francisco dove incontra Anna Halprin che la inizierà alla ricerca sul movimento e l’improvvisazione. È la San Francisco dei poeti della Beat Generation e dei musicisti Jazz. Nell’arte si aprono nuovi scenari e per Forti sarà l’inizio di un viaggio tutt’ora in corso, senza fine, senza fretta, che la porterà lontano. Negli anni Sessanta vive a New York dove diventa una figura importante della comunità legata al Judson Dance Theater, collettivo di performer, compositori e artisti, fra i quali figuravano Steve Paxton, Lucinda Childs, Trisha Brown e tanti altri, alla ricerca di un movimento semplice e scevro di formalismo capace di portare una grande rivoluzione nell’approccio alla danza e al movimento. Negli anni, il suo lavoro evolve, integrando in maniera regolare l’uso della parola scritta e parlata, ma lei rimane sempre fedele a un linguaggio personale che rifiuta le forme prestabilite e, soprattutto, la storicizzazione del suo percorso. Nel 2021, per la prima volta, un’istituzione italiana le dedica una mostra di ampio respiro, che non sembra una retrospettiva che guarda al passato, piuttosto un progetto che offre uno scorcio sul presente e sul futuro di Simone Forti.
Patrick Steffen: Partiamo dal presente: verrai in Italia per la tua retrospettiva “Senza fretta” al Centro Pecci di Prato?
Simone Forti: Purtroppo no. Per via del Parkinson, non viaggio più. È la prima grande mostra che un museo italiano mi dedica, ma non potrò vederla.
PS: Raccontaci come è nata la mostra…
SF: Non ricordo esattamente, ma credo che sia stato Luca Lo Pinto ad avere avuto il primo impulso, il primo desiderio. Ed io ho subito trovato l’idea molto bella, perché il mio babbo viene proprio da Prato, è nato lì. A Prato ci sono le mie radici e mi è subito piaciuta l’idea di presentare una retrospettiva dove ho le mie origini, è un evento emozionante. Luca è venuto qui a Los Angeles per incontrarmi, per vedere le mie opere, abbiamo trascorso parecchio tempo insieme. Con il tempo le nostre idee sono cambiate diverse volte, il nostro progetto è evoluto: abbiamo collaborato insieme per pensare la mostra e metterla in atto. Ad esempio, c’è un elemento molto particolare nell’esposizione: l’accompagnamento sonoro. All’inizio mi pareva davvero un’idea strana che interferiva con il resto delle opere. Poi ho realizzato che lo spazio è molto ampio e oggi sono convinta che sia stata una scelta giusta perché il suono riempie bene lo spazio. Mi piace molto l’idea che si possa ascoltare questo tappeto sonoro, con delle canzoni, dei brani musicali con strumenti improvvisati, con la mia voce che legge alcuni passaggi dei miei diari del 2004 e 2005. Il risultato è un collage di voci, un coro polifonico che accompagna il pubblico nel suo viaggio fra i miei appunti, ricordi, pensieri.
PS: L’esposizione si concentra in particolare sulla serie “News Animations” (1985-2012 ca), perché?
SF: Si, è vero, e anche questa è una scelta che è arrivata solo in seguito, in un secondo momento, dopo discussioni molto intense. “News Animations” è un aspetto del mio lavoro e della mia carriera che non è stato molto mostrato, per cui ne sono contenta, è stata una novità molto interessante. Fra l’altro, proprio in seguito a questa scelta curatoriale, pubblicheremo anche un piccolo catalogo con le trascrizioni di alcune performance per dare ancora più rilevanza a questi lavori.
PS: Perchè “News Animations” è così importante per te?
SF: Non è più importante delle altre opere, ma rappresenta un approccio più recente, e io personalmente ci tengo molto. “News Animations” rappresenta quello che io sento in un senso kinestetico e che mi permette di capire le forze in gioco in una situazione complicata. Ho cominciato quest’esplorazione proprio per cercare di comprendere le notizie di attualità. Leggo molto i quotidiani online e ascolto la radio. E così poi improvviso, mi muovo, parlo, interpreto e vivo le notizie e le sensazioni che mi provocano. È un approccio che lega il corpo, la mente e il mondo. E mi permette, a volte, di capire il mondo, anche perché io non sono molto scolastica, ma sono molto fisica. Capisco le cose, ma a modo mio.
PS: Da dove viene questa qualità fisica che invece ha sempre caratterizzato la tua pratica?
SF: Forse perché io, ancora oggi, sono rimasta, in un certo senso, una bambina di otto anni!
PS: Cosa sognavi di fare a otto anni?
SF: Volevo essere un’artista. Mi ricordo che spesso a cena si invitavano amici a casa nostra, c’erano molti artisti, e c’era una donna che portava sempre delle collane bellissime che mi piacevano molto, e sfoggiava una bellissima pettinatura. Ed io volevo essere come lei… Inoltre, nello studio del mio babbo, c’era una grande collezione di libri d’arte, c’erano molti cataloghi, soprattutto sul Rinascimento e sull’Impressionismo e questi libri mi hanno molto marcata nella scelta di una vita artistica. Anche se non ho mai pensato di diventare una pittrice…
PS: Però hai iniziato verso i vent’anni con la danza, insieme a Anna Halprin…
SF: Sì, con lei ho imparato molto. E di lei ricordo tante cose. L’ho incontrata quando stava sviluppando la sua ricerca sull’improvvisazione. Mi ha insegnato soprattutto a imparare dal mio corpo, a compiere una mia ricerca personale, senza copiare gli altri. Devo dire la verità, per me era un approccio abbastanza naturale, anche se non semplice. Non ho mai voluto, né apprezzato, imparare movimenti che appartenevano ad altre persone. Non mi è mai interessato, ho sempre voluto inventare i miei movimenti. Mi interessa la ricerca. È forse la parola che più si avvicina a una definizione della mia pratica.
PS: Hai anche vissuto in Italia, a Roma, verso la fine degli anni Sessanta. Cosa ricordi di quel periodo?
SF: Ho vissuto a Roma per due anni. Tramite un amico fotografo ho incontrato Fabio Sargentini della galleria L’Attico e insieme abbiamo deciso di mostrare le mie opere. Abbiamo organizzato un concerto e potevo usare il suo spazio per le mie ricerche, alla mattina. Non era molto differente dagli anni trascorsi a New York, dove mi sentivo al centro di un movimento di artisti che in fondo avevano la stessa voglia di fare ricerca. Avevo un appartamento vicino allo zoo e ho anche iniziato a studiare il movimento degli animali. Ho imparato tante cose.
PS: Oggi hai ancora occasione di imparare?
SF: Sì, ed è essenziale. Ad esempio, regolarmente scrivo ogni settimana a un giovane artista, e questo scambio mi ispira e insegna tante cose. Lui si chiama Barnett Cohen, è scrittore, fa performance, teatro, il suo percorso è molto interessante. E nella mia ricerca, anche la parola parlata mi piace molto ed è importante. Questa relazione epistolare, inoltre, mi obbliga ad avere un ritmo, come se fosse un compito, devo scrivere, leggere, rileggere, poi inviare la lettera. È un’attività che mi dà una sorta di disciplina, anche se io in genere funziono meglio senza disciplina.
PS: Sei uno spirito anarchico?
SF: Abbastanza.
PS: Cosa osservi del mondo di oggi?
SF: Oggi abbiamo capito che la situazione è abbastanza brutta. Ad esempio, negli anni Sessanta, c’era molta leggerezza, anche fra noi artisti e il nostro approccio al lavoro era completamente differente. Sento questa grande differenza. E vedo che le nuove generazioni sono abbastanza, e giustamente, preoccupate, ci sono gruppi di giovani molto preoccupati.
PS: Tornando al progetto di Prato, potresti parlarci dell’immagine che è stata scelta per rappresentare la mostra? Si tratta di un frammento del video A Free Consultation (2016) che è molto particolare…
SF: Il video fa parte della mostra. Quest’immagine è un frammento che mostra solo una parte dell’azione filmata. Non si capisce esattamente dove mi trovo, ma in realtà, sono al bordo del lago Michigan, uno dei tre grandi laghi di quella regione. E a due metri da dove sono sdraiata, c’è della neve, e nel video, mi si vede strisciare un po’ come un rettile, come una tartaruga. Mi sposto lentamente verso la neve, verso il lago. Il titolo dell’opera è legato al fatto che fra le mani ho una radiolina che ascolto, ed a un certo momento passa un annuncio che dice “you can get a free consultation…” È un video creato con il mio collaboratore Jason Underhill, con il quale ho creato diversi progetti, in particolare alla galleria The Box di Mara McCarthy, a Los Angeles. Lavoro molto bene con lui.
PS: Fra le opere presenti nella mostra, c’è anche la nuova serie “Bag Drawings” (2020-2021), che hai prodotto durante il primo lockdown…
SF: Durante quel periodo, infatti, mi è venuta una strana voglia di prendere qualcosa in mano e quello che ho potuto prendere erano dei pennelli per la pittura ad acrilico. Per il supporto, ho trovato i sacchi della spesa in carta, che sono abbastanza spessi e resistenti. Ho avuto questo impulso fisico di volere spingere, con le mani, di compiere un movimento di spinta. Non ho messo le mani nella tinta direttamente, ma ho usato un pennello. Quella situazione sociale e personale del lockdown, mi ha trasferito una necessità di compiere una spinta verso l’avanti. Questi disegni sono molto legati alla pandemia. Non sempre è stato un periodo facile, ho vissuto anche dei momenti di depressione, ma è normale.
PS: È stato impegnativo preparare questa retrospettiva?
SF: Certo, soprattutto perché abbiamo dovuto rimandarla molte volte. Per la mia collaboratrice Sarah Swenson, che aveva il compito di trasmettere le mie performance a diverse persone, non è stato facile perché il programma cambiava di continuo. È stato un lavoro che ha richiesto molta pazienza.
PS: Esiste un lavoro a cui tieni in modo particolare?
SF: No, non direi. In un senso, so che Huddle (1961) è la mia opera più famosa, per la quale sono conosciuta nel mondo dell’arte, ma non posso dire che è quella a cui sono legata di più. Come già detto prima, io amo molto News Animations, perché rappresenta un modo di lavorare che mi è confortevole.
PS: “Senza fretta” è un bellissimo titolo per una retrospettiva, ed è anche pertinente, per una storia, la storia della tua vita. Come è nato?
SF: In realtà quando cerco un titolo alle mie opere, spesso, apro a caso un libro di poesie del grande poeta americano William Carlos Williams, e leggo la prima frase che si presenta ai miei occhi. In questo caso, avevo trovato proprio “Senza fretta”.
PS: Hai dei progetti in mente per il futuro?
SF: Organizzeremo una mostra al MOCA di Los Angeles, insieme a Klaus Biesenbach. Ho già trovato il titolo: “Squirrel”, scoiattolo. Inaugurerà probabilmente in inverno, quasi dopo la fine della mostra al Pecci.
PS: Così non ti annoi neanche un secondo.
SF: Esatto.
PS: Cosa vorresti ricordasse di te il pubblico quando visita la tua mostra?
SF: Non lo so, non ho nessuna aspettativa in questo senso. Spero semplicemente che qualche lavoro gli rimanga in mente…
PS: Ti andrebbe di concludere questa chiacchierata cantando insieme una canzone? Cosa sceglieresti?
SF: …Quel mazzolin di fiori…
(cantiamo insieme e ci salutiamo così…)