In quel di aprile mi intrattenevo con un Luca Rossi calato nei panni di Giudice. Severo ma paterno, era stato incaricato di “recensire” l’ennesima collettiva di giovani artisti, tenutasi stavolta al Centro di Cultura Contemporanea Strozzina di Firenze. Per il fustigatore mascherato è certamente una consuetudine valutare lo stato dell’arte emergente ma anche, naturalmente, quello della critica che la seleziona. Ecco, per quel che mi è dato ricordare, quanto deliberava.
Il Premio Talenti Emergenti 2011, giunto alla sua seconda edizione, ha visto Luca Massimo Barbero, Chiara Bertola, Andrea Bruciati e Giacinto Di Pietrantonio invitare ognuno quattro artisti per un totale di sedici.
Il risultato, data l’età dei concorrenti per la verità non sempre così giovane, è una compagine eterogenea sul piano delle ricerche e tuttavia contrassegnata, a parte qualche rara eccezione, dal medesimo problema di fondo: la mancanza — almeno per il momento — di un idioletto personale riconoscibile, di uno stile identificabile, di una ricerca artistica capace di contraddistinguere l’artista nel mare magnum delle proposte nazionali e internazionali. “Così fan tutti”, si potrebbe sintetizzare. Solo gli immaginari, quando ci sono, riescono a identificare con precisione qualcuno degli artisti.
Peccato che anche in quel caso il portato linguistico delle opere tradisca un “manierismo internazionale” non meglio identificato, se non addirittura un debito misconosciuto nei confronti di illustri predecessori o coetanei più noti.
Appaiono così, come tanti “personaggi in cerca d’autore”, la bella, fresca e sofisticata, ma anche impersonale installazione di Ludovica Carbotta; quella intelligente ma un po’ scolastica di Margherita Moscardini; la “micro-personale” di Patrizio Di Massimo, campione d’eclettismo capace di abbinare estratti di Transavanguardia a essenze di Concettuale con impudente (e imprudente) disinvoltura; la video installazione davvero “poligama” di Antonio Rovaldi; il colto “smart relativism” di Meris Angioletti; le installazioni ambientali per nulla sui generis di Riccardo Benassi e Valentino Diego.
Alla compagine dei distratti, invece, fanno capo gli Invernomuto, con una video installazione pretestuosamente “allucinata e straniante”, alla “Twin Peaks” per intenderci, un po’ troppo adolescenziale ma soprattutto debitrice, sul puro piano formale, di un certo Mike Kelley. Alberto Tadiello, già vincitore del Premio Furla, avrebbe invece dovuto rammentare, su tutti, il Carsten Nicolai della Biennale di Venezia 2001.
Il suo clacson a doppia canna appare un plagio, ma goliardico e casereccio, dell’opera ben più pregnante esposta in quella occasione dall’artista tedesco. Giorgio Andreotta Calò sembra assumere nella sua ricerca, ancora con poco scarto, Cyprien Gaillard, il suo compagno di scuderia Hans Schabus e tutto quell’immaginario urbano fatto di “periferie e detriti” che caratterizza in genere gli artisti fulminati sulle vie del flâneur.
Loredana Di Lillo, prima di realizzare il suo bellissimo tricolore virato in bianco e nero e issato su un’asta incoronata dallo stemma della Repubblica (il lavoro migliore della mostra), avrebbe dovuto ipotizzare che tale sarcastico vessillo, per quanto evocativo e puntuale, sarebbe meglio ascrivibile a Cattelan o anche a Piero Golia. Fosse del grande Maurizio sarebbe un capolavoro, invece rimane un ottimo lavoro senza “capo”. Una nota di merito, infine, va a Rossana Buremi, la cui pornografica pittura a seconda dei gusti può eccitare, disgustare o lasciare del tutto indifferenti, ma sicuramente è capace di identificarla in quanto professionista che ha saputo ritagliarsi una cifra stilistica tutta sua. Giunti a questo punto, non ricordo più come Rossi giudicava i restanti artisti, in particolare il vincitore Luigi Presicce ma anche, tra gli altri, il neo promosso alla Biennale di Venezia Luca Francesconi (chissà, magari sarà per la prossima volta).
Dopo il caustico verdetto, “Talenti strozzati” — che però suggerisce solo come tale giudice inflessibile abbia davvero a cuore il futuro di quei “ragazzi” —, lo interrogavo su come sia possibile continuare ad accordare fiducia e autorevolezza a critici e curatori che, al contrario, piuttosto di segnalare loro i “reati” di cui sopra, li hanno selezionati al fine di premiarli. “Quanti presunti talenti che ieri hanno vinto, dovranno con ciò continuare a perdere un domani?”, gli domandavo contorcendomi nel letto. Perché non si dirotta la gran parte dei premi sui migliori e più sicuri “over 35” — cioè l’esatto opposto di quanto normalmente avviene in Italia ma non all’estero — invece che sulle tante promesse “under 35” che per lo più non saranno mantenute?
Non sarà giunto il tempo di criticare — di “mettere in crisi”, letteralmente — quel Mito del Giovane tanto in voga nel nostro sistema dell’arte ma buono solo nello sport, che ha generato, sul modello di talent show televisivi quali Amici e X Factor, un monopolio di “vivai” e dunque di “selettive” con il risultato di mai condurci ai Mondiali dell’arte?
E non sarà invece il caso di rispolverare quel Logos dell’Identità a esso contrapposto, il cui tramonto è andato di pari passo con l’eclissi del nostro prestigio internazionale e l’obnubilamento delle facoltà di giudizio di una nazione che ancora non comprende perché ha esportato appena una manciata di artisti in vent’anni?
All’improvviso mi sono svegliato, sudato e incupito: era stato solo un brutto sogno. Ma com’era realistico! E sì che a me, quella rassegna, pur così esclusiva e accreditata, è parsa semplicemente nella media delle mostre cadette. Che mai mi sognerei di recensire.