Come raccontare una mostra che ha fatto della vulnerabilità e dell’imprevisto il suo farsi? Come descrivere le quattro “fasi lunari” che hanno visto avvicendarsi trentuno artisti differenti per età e poetica? E ancora, come recensire un progetto dove gli stessi curatori, Chiara Bertola e Andrea Lissoni, hanno fatto della discussione e del compromesso il loro parametro fondante per dar vita a “Terre Vulnerabili”?
Abbiamo vissuto per mesi lo spazio dell’Hangar Bicocca come un territorio dinamico dove è cresciuta una quantità di opere fragili e bisognose di continue cure. Rivoluzionando la prassi delle mostre canoniche, questo progetto si è rivelato lentamente, mostrandosi nella sua forma cangiante e in continua evoluzione. Il suo punto di forza è stato quello di affermare quanto una mostra debba essere prima di tutto un’esperienza viva e partecipata. La gestazione di “Terre Vulnerabili” è iniziata nel 2009, per germogliare, dopo tanti incontri tra gli artisti e i due curatori, nel 2010 con la prima tappa “Le soluzioni vengono dal basso”, titolo significativo mutuato da un ragionamento di Yona Friedman. Dal primo quarto di mostra, dove abbiamo visto, per esempio, il manto erboso di Ackroyd & Harvey crescere, i vasi di ghiaccio di Elisabetta Di Maggio sciogliersi, il mutare delle ombre delle esili strutture di Alice Cattaneo e il fluttuare dei fogli bianchi dell’altissimo soffitto di Alberto Garutti, abbiamo intuito quanto la forza della vulnerabilità dell’oggetto d’arte avesse misurato e dato forma a una ben altra e sfuggente debolezza: la nostra sensibilità di visitatori spesso passivi. All’atto del guardare si è aggiunto così il bisogno di sentirsi vulnerabili, pronti a cambiare idea, per uscire dalla mostra con la sensazione di non aver osservato abbastanza. Da qui la necessità di ritornare per cogliere i cambiamenti, consapevoli di dover investire maggior impegno, acuendo lo sguardo per seguire la colonna fatta di crine di cavallo di Christiane Löhr, abbassarsi per leggere gli appunti ricamati sul feltro di Adele Prosdocimi, avere il coraggio di non rimanere indifferenti davanti alla spiaggia deturpata, e al tempo stesso bellissima, di Kimsooja. Queste e altre opere compongono la seconda tappa, “Interrogare ciò che ha smesso per sempre di stupirci” (Georges Perec), appuntamento che vede nascere un’opera cruciale dell’intero progetto, Une Ville Spatiale pour artistes di Yona Friedman. Nella grande installazione di pannelli in cartone, in cui lo spazio si “umanizza” e dove più che mai è reale il fondamentale incontro tra gli artisti, trovano luogo le opere di Margherita Morgantin, Rä di Martino, Elisabetta Di Maggio, Christiane Löhr e il commovente film Terra Madre di Ermanno Olmi. Nella terza tappa, “Alcuni camminano nella pioggia, altri semplicemente si bagnano”(Roger Miller), troviamo l’impalcatura sospesa di Massimo Bartolini, la struttura esperienziale di Ludovica Carbotta e l’enorme opera di Franz West che dialoga con le Torri di Anselm Kiefer. Infine, anche per l’ultima tappa un titolo rivelativo: “L’anello più debole della catena è anche il più forte perché può romperla”(Stanislaw Jerzy). In questa fase conclusiva, l’ecosistema di “Terre Vulnerabili” ribadisce ancora una volta la necessità di trovare forza laddove l’anello è debole, per individuare o immaginare il punto più instabile, o fragile, per poter rovesciare i sistemi, bloccare gli ingranaggi della prevedibilità e delle certezze. La vulnerabilità diventa così sinonimo di forza, nell’accezione che ne dà Alberto Tadiello nella sua scultura tagliente e aerea, o si trasforma in energia vitale e gioiosa con umili sacchetti di plastica o abiti dismessi, come nelle grandi installazioni di Pascale Marthine Tayou e Nari Ward. È difficile dare corpo alla fragilità e vulnerabilità dell’animo umano, ma è stato molto facile e coinvolgente intuire come questo progetto in continuo divenire lo abbia messo a fuoco con coerenza e semplicità.