La transizione tra il XIX e il XX secolo è un periodo di particolare importanza nella storia dell’arte, per ragioni fin troppo note ed evidenti. Le avanguardie costituiscono i loro sistemi linguistici attraverso un processo parallelo, che agisce nello spazio del linguaggio visivo e allo stesso tempo in quello ancora più astratto dei dispositivi concettuali. Il trauma delle avanguardie, dal quale a distanza di un secolo abbondante una parte significativa dell’opinione pubblica non si è ancora ripresa completamente, consiste nel trasferire allo spettatore la responsabilità di accompagnare il processo della visione, e più in generale dell’esperienza dell’opera, a una immersione più o meno consapevole e deliberata in un sistema di senso prodotto da un certo numero di regole non necessariamente esplicite — sottraendo così l’esperienza dell’arte a ogni illusione, peraltro velleitaria da secoli, forse da sempre, di “immediatezza”. O meglio, facendo dell’immediatezza un traguardo dell’esperienza da riconquistare attraverso un faticoso processo di scoperta di altri livelli di coscienza che richiama molto da vicino il modello del cammino iniziatico. Nell’arte delle avanguardie lo sguardo ingenuo è contemplato e in alcuni casi persino ricercato, ma soltanto per farlo smarrire in un labirinto di specchi percettivi e concettuali, per mostrarne, sadicamente, i limiti — non a caso, pochi episodi sono serviti a mettere a nudo la rivoluzione socio-cognitiva dell’avanguardia meglio della denuncia nazista dell’arte degenerata. Un sistema totalitario di manipolazione della realtà e delle coscienze che cerca di isolare, come un cancro, la portata sicuramente eversiva di una pratica del senso nella quale chiunque è messo in condizione di interagire consapevolmente con i meccanismi su cui questo si fonda, invece di considerarli dati, come parte della natura delle cose. Il nazismo, come tutti i totalitarismi, ha paura delle avanguardie perché comprende fin troppo chiaramente come la messa in scacco della percezione, della finta semplicità e naturalità del riconoscimento di un linguaggio figurativo già ampiamente codificato dalla storia, costituisca una pratica pericolosa e destabilizzante, da stigmatizzare in modo radicale, delegittimandone non soltanto gli esiti, ma anche e soprattutto la matrice concettuale.
Eppure la transizione dal XIX al XX secolo non è solo la stagione delle avanguardie: è anche allo stesso tempo, e significativamente, la stagione della transizione da un modello pre-industriale di produzione economica della cultura ad un modello industriale. È in altre parole il momento del passaggio dall’organizzazione mecenatistica della committenza (che potremmo sinteticamente chiamare il modello della Cultura 1.0) all’organizzazione basata sul mercato, all’industria culturale (che corrisponde al modello della Cultura 2.0). Ciò che rende possibile questo passaggio è una forte discontinuità tecnologica, che si produce e manifesta i suoi effetti appunto in quegli anni: l’azione di una rapida ondata di innovazione che genera nel giro di pochi istanti di tempo storico le moderne tecniche di stampa, la fotografia, il cinema, la radio, il fonografo, rendendo finalmente possibile l’accesso massificato a un ricchissimo patrimonio di contenuti culturali sonori e visivi a condizioni economiche relativamente non discriminanti. La rivoluzione delle avanguardie e quella delle industrie culturali avvengono negli stessi anni, e coevolvono in modo complesso e forse non ancora interamente compreso. L’innovazione che produce l’industria culturale opera soprattutto dal lato della domanda: trasforma sì i contenuti e i linguaggi che li producono, ma essenzialmente fa sì che tali contenuti diventino accessibili con modalità e su una scala fino a poco tempo prima semplicemente impensabili. Non a caso, tra la Cultura 1.0 del mecenatismo e la Cultura 2.0 la distinzione logica e sociale tra produttore di contenuti e fruitore, tra artista e spettatore, resta sostanzialmente preservata — e anzi, attraverso le nuove forme di auratizzazione rese possibili dalla riproducibilità tecnica, lo status socio-identitario dell’artista diventa, nella sfera dell’industria culturale, ancora più complesso e pervasivo di quanto potesse essere nell’epoca pre-tecnologica del mecenatismo.Nel suo ricercare una nuova forma di “immediatezza” dettata dalla necessità di rispondere alle logiche del mercato e quindi di soddisfare i gusti del consumatore riconoscendone la sovranità, l’industria culturale intraprende da subito con l’avanguardia una relazione ambigua e polimorfa. Da un lato la nega e la tiene a distanza in quanto indigeribile ai più, attirandosi così gli strali di quelle correnti di pensiero che temono il potenziale totalitario dell’industria culturale in quanto strumento di seduzione e di indottrinamento di massa su una scala e con una efficacia senza precedenti, dall’altro la blandisce e la assimila, intuendone la necessità come laboratorio di ricerca e di sperimentazione di nuovi linguaggi e di nuovi contenuti, vitali per tenere desta l’attenzione e l’interesse di un pubblico apparentemente tradizionalista ma in realtà famelicamente in cerca di novità e terrorizzato dalla noia e dall’assuefazione. L’avanguardia e l’industria culturale rappresentano così in un certo senso un sistema simbiotico e una coppia dialettica, nella quale ogni parte si rispecchia nel suo doppio e si serve di questo rispecchiamento per trasformarsi — per giungere finalmente al punto di collasso della Pop Art dove l’avanguardia e l’industria culturale diventano improvvisamente, con un allineamento rapido e rivelatore, il calco perfetto l’una dell’altra, rendendo da quel momento non soltanto possibile ma in una certa misura necessaria la co-generazione del concettualismo post-duchampiano e della comunicazione pubblicitaria da una comune matrice di dispositivi di senso, come mostrato da Alexander Alberro nel suo Conceptual Art and the Politics of Publicity. I cammini delle neo-avanguardie e dei mercati di massa tornano quindi a separarsi ma solo apparentemente, perché ormai l’osmosi concettuale è talmente matura e compiuta da non temere più demarcazioni, potendo finalmente declinarsi all’interno di una utile ed efficace dialettica nicchia-massa che di fatto, nella labilità e mobilità dei suoi confini, non fa che moltiplicare le possibilità di azione del mercato. Assimilando di fatto la cultura apparentemente oppositiva e intransigente delle neo-avanguardie a una variante intrigante e ricca di potenzialità di star system alternativo — che raggiungerà ancora una volta, con un rapido quanto naturale ciclo di evoluzione, una sintesi nelle ibridazioni cool di una Lady Gaga, che riesce a essere allo stesso tempo una perfetta icona mass market e una perfetta sparring partner dell’arte più attuale, esibendosi indifferentemente nelle arene da decine di migliaia di posti e nei musei più posh, e attraendo in ambedue le situazioni altrettanto unanime consenso da pubblici che si pensano diversi ma in realtà rappresentano appunto soltanto nicchie di mercato differenti.
Ma ora questo ciclo sta giungendo a conclusione, per una semplice ragione: siamo di fronte a una nuova rivoluzione tecnologica che sta rapidamente forzando il passaggio dalla Cultura 2.0 dell’industria culturale a una nuova modalità. Se il precedente ciclo di innovazione era fondato sulla domanda, quello attuale lavora dal lato dell’offerta: esso è infatti la sintesi di due canali distinti ed altrettanto potenti. Da un lato, la rivoluzione della produzione digitale di contenuti, che rende accessibili a chiunque tecnologie semi-professionali di produzione e manipolazione del suono, delle immagini fisse e in movimento, e di ogni sorta di sistemi di contenuti multimediali. Nella suite di un qualunque laptop troviamo oggi programmi la cui capacità produttiva si sarebbe potuta un tempo trovare soltanto in hardware specializzati, imponenti e costosissimi, il cui uso avrebbe richiesto competenze estremamente specializzate e difficili da acquisire. Le nuove tecnologie digitali non sono soltanto a buon mercato e sono accessibili tutte su una stessa, semplice interfaccia (con poche centinaia di euro di differenza, peraltro, si passa facilmente dalla versione semi-professionale a quella professionale), ma sono anche e soprattutto facili da apprendere, in particolare per i nativi digitali che non a caso se ne impratichiscono con pochi mesi di esperienza sul campo. Dall’altro lato abbiamo poi il canale della connettività: attraverso il web, i propri contenuti diventano potenzialmente accessibili a chiunque, anche se ciò non fa che rendere ancora più severa e selettiva la competizione per l’attenzione. È la somma di questi di canali a generare la rivoluzione della Cultura 3.0: da un lato, tutti possono diventare produttori di contenuti; dall’altro, tutti sono in grado di elaborare un proprio canale di distribuzione di tali contenuti che in via di principio è facilmente accessibile dagli altri, anche se non necessariamente visibile, capace cioè di attirare attenzione in modo stabile. In questa nuova situazione si produce allora una discontinuità anche laddove la Cultura 2.0 aveva prolungato la logica di quella 1.0: è ora infatti la distinzione tra produttore e fruitore di contenuti a farsi sfumata. Nel paradigma 3.0, che è quello delle piattaforme aperte e comunitarie che costituiscono un canale di produzione e di distribuzione di contenuti complementare al mercato (e in qualche caso fortemente alternativo, come le grandi imprese dell’industria culturale si stanno accorgendo, spesso senza capire realmente la vera natura del cambiamento in atto e quindi opponendosi a essa in modo velleitario e controproducente), accedere ai contenuti culturali significa anche, e in modo naturale, produrne di propri. Questo non vuol dire che il ruolo sociale dell’artista, del produttore “professionale” di contenuti debba sparire nel mondo 3.0: tutt’altro. Per l’artista si aprono infatti nuove possibilità, tutte da esplorare. Ma chiaramente il modo di essere e di fare l’artista non può che cambiare.
Questo inizio di un nuovo ciclo del modello di organizzazione della produzione dei contenuti culturali finisce allora per rimettere in discussione il rapporto ormai stabile e pacificato con la riflessione sui meccanismi di produzione del senso? E se questo è vero, si può quindi tornare a parlare di avanguardia, e se sì, in che senso? È quello che cercheremo di capire nelle prossime puntate.