Maurizio Cattelan: Il mio amico Flavio Del Monte, il ragazzo ossessivo dell’ufficio stampa della Fondazione Trussardi, vuole a tutti i costi che ti faccia una domanda sulla tua mostra a Milano.
Tino Sehgal: Flavio, sì, è davvero ossessivo. Se dovessi raccomandare un addetto stampa a qualcuno, farei sicuramente il suo nome prima di tutti, è scatenato. A proposito della mostra a Milano a Villa Reale Belgiojoso Bonaparte, quello che posso dire è che di solito lì c’è Napoleone e ora ci sono io. L’unica cosa triste è che lui c’è stato un paio d’anni, io invece solo alcune settimane. Seriamente, credo che quello a cui Massimiliano (Gioni, curatore della mostra, ndr) era interessato è questo tòpos della storia della scultura che aspira a superare, a trascendere la sua stessa materialità, il suo desiderio di avvicinarsi il più possibile all’essere vivo. Ha una percezione del mio lavoro che va in questa direzione, ovvero: nel mio lavoro la scultura deve letteralmente diventare viva. Per questo motivo ha voluto creare un contrasto tra il mio lavoro e le sculture più vecchie. Credo che questa sia una lettura del mia opera molto interessante, anche se non è stato il mio punto di partenza o ciò che mi ha motivato a realizzarla.
MC: Quindi cosa è importante per te?
TS: Bene, penso che una delle domande principali che mi pongo sia: “Può esserci un progresso che non sia tecnologico?”. Oppure, per formularla in maniera un po’ più ampia: “Può esserci un progresso che non sia tecnologico, ma che abbia la funzione economica di progresso tecnologico?”. Per comprendere perché questa domanda è così importante per me, forse dovrei chiarire qual è la funzione del progresso tecnologico nella nostra situazione economica attuale?
MC: Sì, credo che sarebbe d’aiuto.
TS: Da una parte tutto ciò è inevitabile: siamo umani e tendiamo ad agire in modo ripetitivo. Poiché ripetiamo le cose che facciamo, che lo vogliamo o meno, tendiamo a farle meglio e a renderle più efficaci. Possiamo essere fattivi con meno sforzo o in minor tempo. Applicato a livello sociale, significa che un numero limitato di persone può fare ciò che veniva fatto in precedenza da più persone. C’è qualcosa che tutti noi conosciamo, ovvero il lavoro sostituito dalle macchine, un argomento del quale si è ampiamente parlato fin nei minimi particolari. Di conseguenza, oggi siamo così efficienti che un’esigua fetta della popolazione può produrre ciò che l’intera umanità richiede per soddisfare i suoi bisogni primari. Quindi siamo molto più efficienti di tutte le generazioni passate. Ma il progresso tecnologico sortisce anche l’effetto contrario: conquistare nuove aree di attività, aprendo a nuovi settori occupazionali, nel senso più ampio del temine. Come avere qualcosa da fare, ma anche l’opportunità per il lavoro e per generare profitto. Che è poi ciò che anelerei a intendere come aspetto economico del progresso.
MC: Ma il progresso oggi non è un’idea superata?
TS: Non mi riferisco a certe discussioni filosofiche o storiche sul concetto di progresso, sono interessato alla funzione economica perché è quella che ritengo abbia ancora validità. Il ben noto problema collegato all’intero processo di progresso si verifica nel momento in cui viene a mancare l’equilibrio tra l’innovazione e l’efficienza. Se si crea uno squilibrio del genere, allora è ovvio che un crescente numero di persone si ritroverà senza occupazione e senza possibilità di generare reddito.
MC: Dunque, qual è il tuo problema con il progresso tecnologico?
TS: Credo che ci siano due problemi: uno è renderlo chiaramente un po’ più morbido, direi monotono. Se vogliamo dirla tutta in modo esplicito e formale, significa che oggi un’innovazione tecnologica ha un impatto inferiore sulla nostra qualità della vita rispetto al passato. L’invenzione della corrente elettrica, per esempio, ha cambiato la nostra qualità di vita, un chip più nuovo o l’ultima versione di iPod anziché il walkman provoca un cambiamento pressoché irrilevante nella qualità delle nostre vite. Quindi l’unico problema che abbiamo attualmente con il progresso tecnologico è che quando investiamo in tale progresso, potremmo dire così, questo ha effettivamente una ripercussione sulla nostra qualità della vita. In realtà ci rendiamo conto che non è così. Il secondo, nonché il maggiore, quindi, è il problema opposto alla produttività: noi ovviamente investiamo nel progresso tecnologico perché vogliamo che le cose migliorino, non che peggiorino. Fin dagli anni Cinquanta e Sessanta, nella civiltà occidentale, ci siamo imbattuti in questo problema, si è cominciato a discuterne, e ciò significa che gli effetti collaterali o negativi del progresso tecnologico sono abbastanza preponderanti. Ora, queste sono cose ben note e quello che si potrebbe pensare e facilmente dire è che se da una parte il progresso tecnologico non ha permesso più tanti cambiamenti, dall’altra rimane ancora abbastanza problematico. Possiamo solo entrare in una sorta di stato di equilibrio e non investire solo in questo aspetto. La domanda allora sarebbe: perché questo non è possibile? Perché non è possibile evitare il problema investendo in un processo del genere? Credo che questo abbia qualcosa a che fare con il mercato e che nella nostra società nessuno sia interessato a uscirne. Cosa vuol dire? Significa semplicemente che è difficile che qualcuno sia interessato a essere autosufficiente. Ovvero, nessuno o realmente pochi di noi hanno dei valori culturali orientati a porre fine a una certa specializzazione in tutto quello che si fa. Dal momento che siamo interessati a essere specializzati, stiamo necessariamente all’interno del mercato. Dobbiamo trasformare quello che facciamo, renderlo un prodotto e poi scambiarlo con i nostri simili per soddisfare i nostri bisogni primari. Per questo dobbiamo produrre anche cose nuove che sono fondamentali per alcuni e si possono scambiare per ottenere un profitto che poi possiamo nuovamente scambiare con quel ristretto numero persone che produce ciò che ci serve per soddisfare i nostri bisogni primari, come l’abitazione, il cibo, il riscaldamento ecc. Questa è la dimensione nella quale si colloca la mia domanda, “Può esserci un progresso che non sia tecnologico?”. Ovvero: possiamo immaginare un processo sociale o culturale che prenda in considerazione la funzione innovativa del progresso tecnologico; questo apre a nuovi settori di occupazione o a nuovi ambiti di attività alle quali siamo interessati, a cui possiamo partecipare e anche, cosa più importante, dai quali trarne profitto? Questo è un interrogativo a cui ho pensato per molto tempo e naturalmente è molto difficile trovare una risposta.
MC: In che modo colleghi questo interrogativo al tuo lavoro?
TS: Con il mio lavoro sto cercando di proporre una risposta, che vorrebbe essere un prodotto, la creazione di un prodotto, una situazione costruita o la trasformazione di una situazione, una sorta di trasformazione di azioni. Come sai, ancora oggi molti dei prodotti che vendiamo, compriamo o scambiamo sono conversioni di materiali, come per esempio un tavolo, che è la trasformazione del legno, oppure un microfono, la trasformazione di un insieme di molti materiali, incluso il petrolio. Ovviamente ne traiamo dei benefici e molti di essi sono la trasformazione di azioni e materiali. Quello a cui sono interessato è ciò che si potrebbe definire un puro beneficio, un prodotto che è solo la trasformazione di azioni il cui luogo non è più una cosa materiale — come per esempio l’officina è il luogo in cui si riparano le macchine — , ma i nostri corpi, nella più vasta accezione del termine. Anche questo spazio tra di noi. Idea che ovviamente spaventa alcune persone. Finché io parlo di situazioni e di situazioni costruite va tutto bene. E c’è ovviamente un intera casistica intorno a questo argomento, specialmente nell’arte, collegato ai situazionisti (sebbene ritenga che abbiano dato vita veramente a poche situazioni). Ma la cosa terribile emerge nel momento in cui “questo” dovrebbe essere venduto — anche questo spazio tra di noi, questo spazio trasformato o queste situazioni costruite devono essere venduti e comprati, altrimenti non assolvono alla loro funzione. Credo che una società opulenta come la nostra debba rispondere a questa domanda. Dato che le persone hanno bisogno di realizzare un guadagno, cercano costantemente di pensare — consciamente o meno — cosa gli altri richiedano e come produrre qualcosa per soddisfare tale richiesta? Ecco, penso che siamo arrivati al punto di produrre queste situazioni. Dato che le richiediamo, in quanto società opulenta o persone più ricche che vivono in Occidente, si crea una diversificazione della nostra soggettività o una richiesta di differenziazione di tale soggettività. Quasi tutti sono sicuri del fatto che vivranno domani e che avranno cibo a sufficienza. Sicurezza che non avevano le generazioni passate e di cui si preoccupavano. Di contro, noi siamo molto più interessati alle nostre personalità, al modo in cui ci differenziamo dagli altri e alla formazione della nostra individualità. Questo, possiamo dire, è un periodo di transizione storica da un’era di produzione di soggettività. È fondamentalmente risaputo che oggi se compri un paio di scarpe da ginnastica in un certo senso compri una protezione per i tuoi piedi, come avveniva quattrocento anni fa. Ma oggi acquisti anche un modo di essere, un modo per dichiarare chi sei. Quindi sto cercando di alludere a una maniera più interessante, più diretta e sostenibile di rispondere alla richiesta di differenziare la nostra soggettività. Hai capito cosa sto cercando di dire?
MC: Sì.
TS: Benissimo. Sono circa duemila parole?
MC: 1887.
TS: Bastano?
MC: Sì.