Nell’agosto del 2004 Tobias Rehberger si trova a Los Angeles, così nervoso — ricorda — da morire di freddo. Il motivo della tensione è l’imminente incontro con alcuni dei più affermati specialisti nel campo della produzione cinematografica. L’artista intende convincerli a prendere parte al progetto artistico di un film al contrario che inizi coi titoli di coda, termini col soggetto e difetti del regista. “Ero convinto che (…) avrebbero creduto che fossi pazzo”.
La mostra alla Fondazione Prada è il risultato di quel mastodontico progetto pseudo-acefalo: un non-film intitolato On Otto — come a dire “sul Signor Nessuno”, oppure, secondo la fonetica inglese, “in automatico”. Rehberger rovescia l’ordine di coinvolgimento dei vari professionisti nella produzione filmica e priva l’insieme di una figura che ne orchestri i contributi. L’unico input fornito è quello di un manifesto con l’immagine di un cinema sul cui schermo troneggi il primo piano di Rita Hayworth moribonda ne La signora di Shangai di Orson Welles, noir famoso per l’espressionismo stilistico, in cui le fratture vitree del labirinto di specchi e le prospettive inquietanti delle scene nell’acquario creano una misteriosa ed equivoca moltiplicazione di punti di vista. Sulla base di questo poster, Kuntzel + Deygas iniziano a lavorare sui titoli di coda, mentre Ennio Morricone e Randy Thom producono novanta minuti di musiche e sonoro, Sylvie Landra monta le immagini (una rapida e ritmica sequenza da centinaia di film), e il direttore della fotografia Wolfgang Thaler presenta una serie di spezzoni di estratti panoramici da documentari. Ogni professionista, coinvolto in ordine inverso rispetto all’iter istituzionale, ha in mano solo quello che è stato prodotto da chi lo ha preceduto, in una sorta di gioco a cascata, un domino che partorisce un’enorme opera totale destrutturata. Ogni partecipante, in pratica, è autore indipendente.
Rehberger si riserva l’apparato fruitivo di questi contributi, creando un cinema sculturale, composto da quattro padiglioni in plastica, vetro e legno, ricchi di cunicoli e porte, passaggi sonorizzati e pareti che lasciano filtrare le proiezioni all’esterno e che accolgono le diverse partecipazioni.
I cinque attori (Kim Basinger, Willem Dafoe, Emmy Rossum, Justin Henry e Danny De Vito) non dovendo interpretare nessuno — manca ancora la sceneggiatura a questo stadio — compaiono nella veste di spettatori solitari all’interno di un cinema in altrettanti filmati che accerchiano lo spettatore reale all’interno di un padiglione dedicato. Completano il tutto i costumi di Mark Bridges, la scenografia di Jeffrey Beecroft, lo storyboard di Todd Anderson e il soggetto di Barbara Turner.
On Otto è un’opera complessa il cui valore esula dal risultato estetico finale, “in automatico”, ma consiste nell’idea processuale che stabilisce una metodologia per distillare ciascun elemento costitutivo dell’apparato immersivo del film. Al centro di questo ambizioso esperimento postmoderno c’è il corpo dello spettatore, costretto ad assaporare gli elementi della finzione distillati, per quanto questo disincarnamento sia possibile.
Rehberger propone un modello di cinema espanso in cui gli elementi del film assumono una volontà centrifuga. Barocco ed enigmatico, On Otto si configura contemporaneamente come un’imponente riflessione metalinguistica, un’esperienza sensoriale inedita, e paradigma del valore originale di ciascun individuo nella creazione di un prodotto sociale.